Capuano: “La pillola anti Covid può essere una svolta, ma non mette in discussione i vaccini”
Si chiama molnupiravir e, se tutto andrà secondo le previsioni, sarà presto il primo farmaco orale per la cura domiciliare di Covid-19. L’analisi preliminare dei dati dello studio clinico di fase 3 indica che può ridurre del 50 percento il rischio di ospedalizzazione e di morte negli adulti con forme lievi o moderate di Covid, tanto che il reclutamento dei volontari è stato sospeso per manifesta superiorità del farmaco rispetto al placebo. “Si tratta però di risultati che non sono ancora stati presentati alle Agenzie regolatorie né pubblicati su riviste scientifiche peer reviewed – precisa a Fanpage.it la professoressa Annalisa Capuano, farmacologo clinico dell’Università della Campania ed esponente della Società Italiana di Farmacologia (SIF) – . Sembrano promettenti, anche se per ora sono solo stati annunciati da Merck e dovranno essere valutati in maniera attenta quando l’azienda farmaceutica li invierà per la richiesta di autorizzazione”.
Ma cos’è davvero il molnupiravir e come funziona?
È un farmaco antivirale, che ha un meccanismo d’azione un po’ differente rispetto ad altri antivirali che abbiamo a disposizione, come il remdesivir, perché agisce come un mutageno, quindi va a creare delle alterazioni nel materiale genetico di Sars-Cov-2 per cui il virus perde la capacità di potersi replicare. È una molecola nuova, anche se la principale innovazione di questo farmaco sta nel fatto che, a differenza di remdesivir, si assume per via orale quando la malattia è ancora allo stadio iniziale, dunque quando il soggetto è positivo ma ha sintomi lievi.
Questo potrebbe rappresentare una svolta nella terapia, per la semplicità di somministrazione a pazienti che sono ancora al proprio domicilio e che cominciano a mostrare i primi segni di Covid-19. Quindi, rispetto a remdesivir, che si utilizza in soggetti già ospedalizzati che hanno polmonite bilaterale e necessità di ossigeno, cambia anche la collocazione in terapia.
Cosa sappiamo dell’efficacia?
Secondo i dati annunciati da Merck, che vengono fuori dall’analisi ad interim dello studio di fase 3 denominato MOVe-OUT, dunque negli outpatient, ovvero nei pazienti non ospedalizzati nelle primissime fasi della malattia, il farmaco sembra ridurre del 50% i ricoveri e la mortalità a 29 giorni, ma dobbiamo aspettare i dati delle Agenzie regolatorie e che i risultati di questo trial clinico siano pubblicati su una rivista revisionata.
Un’efficacia del 50% non è però paragonabile a quella dei vaccini…
Non confronterei i dati dell’efficacia dell’antivirale con quelli della campagna vaccinale che stiamo attuando. Né, a mio parere, questa molecola mette in discussione i vaccini che, in termini di prevenzione, hanno un’efficacia indiscussa, che supera il 90% e anche il 95% nel caso delle formulazioni a mRNA dopo la seconda dose, come dimostrato dai dati pubblicati e ormai anche dalla riduzione dei ricoveri ospedalieri e dei casi in terapia intensiva.
E gli effetti collaterali?
Per qualsiasi composto, che sia un farmaco o un vaccino, da una parte abbiamo i benefici attesi e dall’altra la possibilità di insorgenza di eventi avversi. Quello su cui dobbiamo focalizzare la nostra attenzione è la famosa relazione rischi-benefici. In questo contesto, i benefici dei vaccini superano i rischi, talora anche gravi. Abbiamo sentito di trombosi con trombocitopenia, di sindromi multinfiammatorie sistemiche, ma nel calcolo del rapporto rischi-benefici prevale sempre il beneficio della vaccinazione.
Se poi volessimo capire la frequenza di eventi avversi di un antivirale rispetto a un vaccino, anche in questo caso non metterei a confronto la loro sicurezza, perché il vaccino va utilizzato in profilassi mentre questo antivirale, per quanto ne sappiamo, è impiegato come trattamento della malattia. È anche vero che, indipendentemente dal confronto con i vaccini, gli antivirali sono molecole che generalmente possono comportare tossicità renale ed epatica, come visto con remdesivir, che è controindicato nei soggetti che hanno un’insufficienza renale grave o un’insufficienza epatica.
In altre parole, possiamo dire che gli antivirali non sono molecole così maneggevoli, anche se efficaci, per cui bisogna attentamente monitorare i pazienti perché a volte possono portare ad effetti collaterali importanti, come del resto accade anche con i vaccini.
Ci sono altri farmaci su cui si sta lavorando?
Sì, ci sono altre molecole e altri agenti antivirali, come il ritonavir, che viene già utilizzato nel trattamento dell’HIV e attualmente è testato da Pfizer nel trattamento di Covid-19, e anche Roche è al lavoro su un’altra molecola sperimentale, anche se rispetto a molnupiravir sono in una fase più precoce di sperimentazione.
Le promesse sono tante, anche se ancora manca una molecola antivirale efficace nel trattamento della malattia, perché abbiamo anticorpi monoclonali, abbiamo il desametasone, e in generale i corticosteroidi, che sono stati effettivamente l’arma vincente in questa pandemia (lo studio Recovery ha dimostrato in maniera chiarissima l’efficacia del desametasone nella riduzione della mortalità). Abbiamo poi alcune molecole che agiscono come antinfiammatori, come tocilizumab, attivo contro il recettore dell'interleuchina-6, e anakinra, che agisce contro l’interleuchina-1, tutte molecole che sono state già autorizzate dall’Agenzia italiana del farmaco e che quindi abbiamo a disposizione nell’armamentario terapeutico per la cura dei pazienti affetti da Covid 19.
Ma con tutti questi farmaci, allora perché non riusciamo ancora a contrastare bene questa malattia?
Perché a volte, quello in cui si sbaglia è il tempo di introduzione in terapia di alcune molecole. Qualsiasi farmaco, che sia il desametasone o gli anticorpi monoclonali, deve essere somministrato in tempi specifici, altrimenti possiamo perdere i benefici che sono stati dimostrati. Questo è vero anche nel caso del molnupiravir che, quando testato in pazienti già ospedalizzati, non ha dato risultati soddisfacenti.