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Campi Flegrei, individuate le regioni più attive del supervulcano che deformano il suolo

Sono state individuate le aree più attive dei Campi Flegrei grazie ad un nuovo studio che ha sfruttato avanzate tecniche di analisi della condizione del suolo. I risultati ottenuti permettono di comprendere meglio quest’area vulcanica che ha un alto potenziale di rischio per la popolazione. Vediamo insieme i dettagli della ricerca.
A cura di Zeina Ayache
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Le regioni più attive dei Campi Flegrei sono state individuate dai ricercatori attraverso tecniche avanzate di analisi di interferometria radar e sismica. Vediamo insieme cosa sono le ‘regioni più attive’, come gli esperti sono giunti alla loro conclusione e cosa sappiamo in più sul supervulcano flegreo.

I ricercatori dell’INGV fanno sapere di essere riusciti a mappare le porzioni della struttura interna del supervulcano flegreo, che oggi sono più attive, sfruttando tecniche avanzate di analisi interferometria radar e sismica. In pratica hanno studiato le interferenze tra le onde sismiche per capire il livello di attività dai Campi Flegrei.

Quando parliamo di ‘regioni più attive’, spiegano gli esperti, ci si riferisce all’attività del vulcano in relazione alla dinamica del suolo e alle emissioni fumaroliche superficiali, quindi al potenziali rischio legato a queste zone.

Nello specifico, gli scienziati hanno messo in luce le parti più attive del supervulcano flegreo, che è situato a over di Napoli, attraverso “l’integrazione di tecniche di analisi innovative dei dati satellitari e sismici” grazie ai quali è stato possibile “mappare le porzioni della struttura interna del supervulcano flegreo attualmente più attive sia in termini di concentrazione degli sforzi, che di dinamica del suolo”.

Le analisi effettuate hanno inoltre permesso di comprendere meglio l’area a est della solfatara, che si trova vicino alla regione fumarolica di Pisciarelli, e di giungere alla conclusione che questa “rappresenti la porzione di caldera caratterizzata dai più alti tassi relativi di deformazioni del suolo, tra il 2011 ed il 2014, a cui corrisponderebbe, a una profondità tra gli 0.8 ed 1.2 km, una regione caratterizzata dalla massima concentrazione di sismicità registrata: tendenza che prosegue anche dopo il 2014”. Nello specifico gli esperti spiegano di aver scoperto un’area di crosta in cui si registra un cambiamento significativo della velocità di propagazione delle onde sismiche, e proprio questo aiuterebbe a dimostrare la presenza di corpi geologici con caratteristiche meccaniche diverse che potrebbero essere legate ad intensi fenomeni idrotermali estesi “tra la superficie topografica e circa 1.5 km di profondità, che andrebbero a costituire strutturalmente il sistema di interconnessione della sorgente magmatica profonda con la superficie. Tale interpretazione è supportata anche dall’intensa attività fumarolica registrata tra la solfatara e la località Pisciarelli nel periodo 2011-2014”.

Lo studio, intitolato “Volcanic structures investigation through SAR and seismic interferometric methods”, è stato realizzato grazie alla collaborazione tra il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irea), l’Osservatorio vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv-Ov), il Dipartimento di scienze della terra dell’ambiente e risorse dell’Università degli studi di Napoli Federico II, l’INVOLCAN (Instituto Volcanológico de Canarias, Tenerife, Spagna) e l’Institute for Geosciences JGU (Johannes Gutenberg-Universität Mainz) ed è stato pubblicato su Remote Sensing of Environment.

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