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C’è l’accordo per costruire il più grande radiotelescopio del mondo

Il colossale progetto SKA (Square Kilometre Array) sarà costituito da 3000 antenne capaci di scandagliare lo spazio e “vedere” l’origine dell’universo. La potenza d’osservazione sarà tale da poter rilevare il radar di un aeroporto a 50 anni luce di distanza.
A cura di Roberto Paura
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SKA

C’era una volta un sogno chiamato Cylops. Un progetto “ciclopico” non solo per il nome: era il 1971 e la NASA sognava di realizzare un grande occhio spalancato sull’universo, composto da mille antenne orientabili su una superficie di 200 chilometri quadrati. Un enorme radiotelescopio capace di osservare lo spazio nelle radiofrequenze, svelando i segreti dei primi istanti dopo il Big Bang. Ma non solo: Cyclops avrebbe permesso di ampliare la portata del progetto SETI, nato per cercare segnali di vita intelligente oltre la Terra. L’enorme radiotelescopio avrebbe potuto individuare un singolo segnale radio fino a 1000 anni luce. Ma i costi spropositati per l’epoca, circa 100 miliardi di dollari, costrinsero quel sogno a tornare nel cassetto. Da dove, alcuni anni fa, è stato rispolverato: e, grazie agli enormi sviluppi tecnologici e industriali degli ultimi decenni, quel sogno è stato rivisto e ampliato e sta per diventare realtà. Ribattezzato “Square Kilometre Array”, per gli amici SKA, dopo un lungo iter vedrà la luce tra pochi anni. Dove? Si deciderà il prossimo anno. In lizza il Sudafrica e l’Australia.

La rivoluzione della radioastronomia

A realizzarlo sarà un consorzio internazionale che attualmente conta sei paesi: Australia, Cina, Italia, Nuova Zelanda, Olanda e Sudafrica. I rappresentanti di queste nazioni si sono incontrati a Londra due giorni fa per dare il via alla fase di progettazione, della durata di cinque anni e dal costo di 69 milioni di euro. I cantieri apriranno nel 2016 e per allora altri partner si saranno aggiunti, e con loro altri fondi. In totale, infatti, lo SKA costerà 1,5 miliardi di euro.

Non bisogna farsi trarre in inganno dal termine. Un radiotelescopio non serve a captare le comunicazioni radio degli extraterrestri. Certo, può fare (volendo) anche quello. In realtà fa esattamente lo stesso di un telescopio: osserva le radiazioni elettromagnetiche emesse da galassie, stelle, pulsar e materia interstellare. La radiazione elettromagnetica emessa dall’universo assume diverse lunghezze d’onda: in alcuni casi si tratta di radiazione visibile sotto forma di luce, e quindi “leggibile” dai telescopi. In altri casi si tratta di radiazione infrarossa, per la quale abbiamo in orbita alcuni telescopi spaziali (la radiazione infrarossa è in buona parte assorbita dall’atmosfera). In altri casi ancora, questa radiazione assume la forma di onde radio, per intenderci quella ricevibile dalle nostre antenne di casa, paraboliche e non.

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Una radio, in realtà, fu all’origine della radioastronomia, che rispetto all’astronomia classica è una disciplina recente. Nel 1931 un ingegnere americano, Karl Jansky, chiamato dai Bell Telephone Laboratories per capire l’origine di un fastidioso rumore di fondo che disturbava le radiocomunicazioni, si rese conto che la fonte non proveniva dalla Terra, ma dallo spazio. Mise su un radiotrasmettitore e cominciò così a ricevere i dati delle emissioni radio provenienti dal centro della Via Lattea. Nel corso degli anni, gli sviluppi tecnologici hanno perfezionato i primi, rudimentali apparecchi di ricezione. Oggi, un radiotelescopio altro non è che una versione perfezionata, e molto più grande, dell’antenna parabolica di casa. I segnali radio rimbalzano sul disco parabolico che li riflette sull’antenna dipolo posta al centro della parabola, e di qui al computer che li rielabora.

Invece di vedere le partite di calcio, gli scienziati vedono galassie antichissime, dai nuclei ribollenti d’energia, da cento a un milione di volte quella emessa dalla nostra Via Lattea. Sono le radiogalassie, che al loro centro ospitano probabilmente un enorme buco nero impegnato a inghiottirne le stelle. Le radiosorgenti, cioè i corpi celesti che producono una vasta gamma di emissioni radio, sono tutti oggetti molto interessanti: lo è il Sole, per esempio, e un po’ tutte le stelle. Più strane sono, più emettono radiazione elettromagnetica nella banda radio: stelle binarie, supernove, stelle di neutroni, buchi neri come quello al centro della nostra galassia, galassie antichissime che ci appaiono in formazione ma che oggi forse sono moribonde (non dimentichiamo che anche qui vale la regola dell’anno-luce: se osserviamo nelle radiofrequenze una galassia a 10 miliardi di anni luce, la vediamo com’era 10 miliardi di anni fa).

Le radiosorgenti più interessanti sono forse le pulsar, stadio finale di alcune stelle che in un diametro di pochi chilometri contengono una massa superiore a quella del Sole. Le pulsar emettono impulsi radio regolari a ogni rotazione, che avviene a velocità incredibili. Quando questa radiazione “guarda” verso la Terra, viene captata dai radiotelescopi. È esattamente come essere investiti dalla luce di un faro. Dato che questi impulsi vengono ricevuti dai nostri radiotelescopi con regolarità (a ogni rotazione della pulsar), all’inizio si pensò addirittura che fossero segnali di civiltà aliene. Del resto, quello che gli scienziati cercano per dimostrare l’esistenza di extraterrestri è esattamente un segnale radio regolare, diversamente da quelli naturalmente prodotti nell’universo. Una pulsar fa esattamente questo. Ma verificando meglio l’origine degli impulsi, fu facile trovare una spiegazione più prosaica, che tiene conto degli effetti straordinari delle stelle di neutroni, stelle la cui materia contiene venti volte più neutroni dei protoni.

Un problema di dimensioni

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Insomma, non abbiamo trovato gli “omini verdi” (il primo segnale pulsar fu classificato con l’acronimo di LGM, “little green men”, ossia appunto “omini verdi”), ma in compenso la radioastronomia ci ha spalancato le porte di un universo ancora più violento e straordinario di quanto riuscissimo a immaginare. Ma c’è un problema. Le onde radio hanno una lunghezza d’onda centinaia di migliaia e addirittura milioni di volte maggiore di quella prodotta dalla luce visibile. Benché l’antenna parabolica di un radiotelescopio non richieda la precisione di fabbrica al micrometro dello specchio di un telescopio, ma una precisione di un centimetro o anche più, e quindi risulti estremamente più economico di un telescopio, i segnali che è capace di ricevere hanno una risoluzione molto più bassa di quelli visibili. Per ottenere dalla radioastronomia la stessa risoluzione che oggi hanno i telescopi terrestri più potenti, la parabola dovrebbe avere un diametro circa un milione di volte più grande dello specchio del telescopio. È ovvio che è impossibile.

Un rimedio possibile è quello di costruire una serie di antenne di grandezza tollerabile sparse però su una superficie molto ampia: messe a sistema, tali antenne imiterebbero il funzionamento di un radiotelescopio con una parabola dal diametro pari alla superficie occupata dalle antenne. Questa soluzione è stata impiegata anche per l’astronomia osservativa classica, con ottimi risultati. Così, nel 1980, nel deserto del Nuovo Messico, la NASA ha messo in funzione il Very Large Array: un insieme di 27 antenne paraboliche molto grosse che insieme formano un radiotelescopio con un diametro di 40 chilometri. Un’impresa significativa, ma mai quanto quella che si sta per realizzare con lo Square Kilometre Array.

Rispetto a quelle del Very Large Array, le antenne di SKA sono più piccole: hanno una parabola con un diametro di circa 15 metri rispetto ai circa 25 del VLA. Ma sono un po’ di più: 3000. Saranno sparse per un’area di un milione di metri quadrati, realizzando un unico grande telescopio con una superficie riflettente dal diametro di tremila chilometri. La metà delle antenne saranno racchiuse in un’area delimitata, ma altre saranno sparse lungo un’amplissima superficie tale da aumentare enormemente la risoluzione del complesso radioastronomico.

Dove sorgerà lo SKA?

Un progetto tanto smisurato necessita di essere ospitato su un’area molto vasta a bassa densità abitativa. Per questo, i due paesi che si stanno contendendo l’onore di ospitare il radiotelescopio sono il Sudafrica e l’Australia.

In realtà, nessuno dei due paesi potrà da solo ospitare tutte le antenne. Ne ospiteranno la maggior parte, ma quelle più lontane saranno sparse su un’area che va oltre i confini nazionali: tutta l’Africa meridionale insieme alle isole dell’Oceano Indiano, nel caso in cui il Sudafrica ottenga l’ambito riconoscimento; buona parte dell’Oceania, con l’intera Nuova Zelanda inclusa, nel caso il cui lo SKA vada in Australia. La scelta sarà fatta l’anno prossimo. Il Sudafrica, che di recente ha lanciato un ambizioso programma spaziale mettendo in orbita due satelliti, vede nello SKA un’ottima occasione per incentivare l’industria nazionale e dare lavoro a migliaia di persone, tra scienziati, tecnici e manovali. L’Australia, d’altro canto, può offrire un’area disabitata più vasta e un contesto politicamente più stabile. I cantieri apriranno tra cinque anni e le prime antenne cominceranno a fornire i primi dati nel 2019. L’intero complesso entrerà in funzione nel 2024, promettendo un’autentica rivoluzione.

Scoperte rivoluzionarie

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Lo SKA cercherà di spiegare, infatti, l’origine dell’accelerazione dell’universo e la natura della misteriosa energia oscura che si ritiene sia responsabile di quest’accelerazione. Lo farà attraverso una mappatura della distribuzione dell’idrogeno nell’universo che permetterà di individuare le prime galassie della storia del cosmo, e la loro posizione. Sapremo così se anche loro sono state interessate dal fenomeno dell’accelerazione, che le ultime scoperte hanno dimostrato essere iniziato solo in tempi relativamente recenti, il che insospettisce parecchio gli scienziati. Sarà possibile individuare le prime stelle e i primi buchi neri dell’universo, subito dopo il Big Bang, di modo da comprendere meglio i primi tumultuosi milioni di anni del cosmo, e magari anche quello che c’era prima… non va dimenticato, infatti, che anche il cosiddetto “eco del Big Bang”, la radiazione fossile di fondo che permea l’universo, è emessa nella banda radio dello spettro elettromagnetico. E Roger Penrose, il celebre fisico di Oxford, sostiene di aver individuato, in quella radiazione, le prove che prima del Big Bang ci fosse un altro universo.

Ma è chiaro che la possibile scoperta più interessante che potrebbe venire dallo SKA è quella di un eventuale segnale intelligente extraterrestre. La potenza dello SKA sarà talmente grande da poter intercettare il segnale di un radar aeroportuale su un pianete distante 50 anni luce dalla Terra, e radiosorgenti artificiali più potenti per migliaia di anni luce. I radioastronomi del SETI assicurano che, se gli alieni sono nella nostra galassia e comunicano con le onde radio come noi, ne scopriremo l’esistenza entro la metà del secolo. Anche se non ci imbattessimo subito in un segnale intelligente, lo SKA potrà verificare la presenza, sospettata dagli scienziati, di molecole organiche complesse nello spazio interstellare. Se tale presenza fosse confermata, sarebbe possibile consolidare la tesi per cui i mattoni della vita sarebbero giunti sulla Terra proprio dallo spazio e quindi, teoricamente, potrebbero essere sparsi in tutto l’universo.

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