Adesso spunta anche la “variante milanese”: cosa sappiamo e quali sono i rischi della mutazione
Una nuova variante, o meglio una sostanziale modifica del codice genetico del coronavirus Sars-Cov-2, è stata identificata in due pazienti, un uomo di 51 anni e una donna di 48 anni, entrambi medici della divisione ospedaliera Covid di un ospedale italiano con sede a Milano, in Lombardia, che hanno contratto il virus nella prima ondata pandemica. La mutazione, isolata dai ricercatori dei laboratori di virologia dell’Università Statale di Milano coordinati da Pasquale Ferrante, Serena Delbue e Elena Pariani, in collaborazione con l’Istituto Clinico di Città degli Studi del capoluogo lombardo, riguarda il gene che codifica per la proteina Orf6, un piccolo peptide di 61 aminoacidi, e potrebbe essere derivata da un processo di variazione intraospite del virus.
I dati del sequenziamento genico, pubblicati sulla rivista Emerging Microbes & Infections, hanno indicato la presenza di una mutazione puntiforme del nucleotide 27368 nella regione codificante di Orf6 che ha portato a un codone di stop a livello dell’aminoacido 55. “Si tratta del primo rapporto di una sequenza di Sars-Cov-2 che trasporta una mutazione nucleotidica che porta a un codone di stop nella regione codificante di Orf6” spiegano gli autori dello studio che hanno depositato i loro risultati sia presso la Gen Bank sia presso la banca dati Gisaid. Nel dettaglio, l’analisi ha assegnato i ceppi al lignaggio B1.1 in base alla presenza di alcune mutazioni presenti nel gene N, mentre nel gene S è stata rilevata un’altra mutazione puntiforme (Asp614Gly).
I rischi della nuova mutazione
L’alterazione più rilevante, ad ogni modo, non riguarda la proteina Spike che il virus utilizza per legare le cellule e penetrare al loro interno, bensì la proteina accessoria Orf6 che può essere un fattore in grado di alterare i meccanismi patogenetici di Covid-19. Precedenti evidenze scientifiche hanno infatti indicato che questa proteina è un possibile antagonista dell’interferone di tipo I ed è in grado di modulare la risposta immunitaria dell’ospite. La mutazione “potrebbe dunque avere conseguenze sulla diffusione del virus nell’organismo umano infettato e sull’evoluzione clinica della malattia”.
Un’osservazione analoga è emersa anche per un’altra piccola proteina accessoria, Orf8, che come Orf6 è stata identificata come antagonista dell’interferone. Nella variante inglese B.1.1.7, anche Orf8 presenta una mutazione che porta a un segnale di stop. Ciò comporta che, all’interno della cellula infettata, la sintesi della proteina Orf8 si interrompa a livello di questa mutazione, lasciando una proteina troncata che si ritiene non sia funzionante. “Al contrario – spiegano i ricercatori – la delezione di Orf6 in vitro ha portato all’induzione della produzione di interferone”.
Un’eccessiva e prolungata produzione di interferone potrebbe determinare “risposte proinfiammatorie e aggravare l’infezione da SARS-CoV-2” avvertono i ricercatori, sottolineando “l'importanza del monitoraggio di tutte le mutazioni che Sars-CoV-2 accumula, anche di quelle che coinvolgono le regioni regolatorie, ad oggi meno studiate, ma che costituiscono più della metà del genoma virale”.
“In questo scenario ancora incerto della patogenesi di Covid-19 – concludono – l’isolamento di nuove varianti virali, impiegando possibili, anche se ipotetici, diversi meccanismi di patogenesi potrebbe essere utile per lo studio di strategie terapeutiche innovative”.