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Un sottomarino per liberare Napoleone: il piano scoperto da uno storico argentino

Ne parlò per primo Walter Scott nella sua “Vita di Napoleone”, ma da allora è rimasta una storia leggendaria. Ora lo storico Emilio Ocampo rivela i dettagli del piano per liberare Napoleone dalla prigionia di Sant’Elena grazie a un sottomarino.
A cura di Roberto Paura
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I sei anni trascorsi da Napoleone Bonaparte sull’isola di Sant’Elena, guardato a vista dagli inglesi che lo avevano battuto a Waterloo, fino alla sua morte il 5 maggio 1821, sono senza dubbio quelli più avvolti nella leggenda. Già allora le storie di incredibili piani per far fuggire il più celebre dei prigionieri da quell’isola sperduta nell’Atlantico, lontana centinaia di miglia dalle coste più vicine, avevano riempito pagine di giornali e pettegolezzi di mezza Europa. La letteratura e il cinema si sono poi appropriati di questo affascinante plot, ripreso tra gli altri dallo scrittore Simon Leys in The Death of Napoleon, da cui è stato tratto il film I vestiti nuovi dell’Imperatore con Ian Holm, e dal regista Antonione de Caunes nel suo Monsieur N. Come dar torto, del resto, al governatore inglese Sir Hudson Lowe, ossessionato dal timore di farsi sfuggire Napoleone da sotto il naso, dopo che già nel 1815 l’imperatore dei francesi era riuscito a eludere la sorveglianza britannica nel suo primo esilio all’Isola d’Elba, riconquistando il trono di Francia in pochi giorni senza sparare un solo colpo? Ogni più piccola voce di un complotto bastava per far aumentare la sorveglianza intorno al “generale Buonaparte”, come spregiativamente Hudson Lowe insisteva a chiamare l’ex imperatore, facendo terra bruciata intorno a lui. Con l’accusa di tramare in tal senso, vennero espulsi da Sant’Elena il memorialista di Napoleone, Emmanuel de Las Cases, reo di aver fatto giungere in Europa lettere del prigioniero, e il suo medico irlandese, Barry O’Meara. Soprattutto quest’ultimo sembra aver avuto un ruolo-chiave nel più straordinario complotto per liberare Napoleone dal suo esilio: un blitz a bordo di un sottomarino a vapore!

Gli indizi raccolti da Walter Scott

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Il primo a parlarne fu Sir Walter Scott, l’acclamato autore di Ivanhoe, che a Napoleone aveva dedicato una biografia monumentale in nove volumi, dando credito – da buon inglese – alla leggenda nera che dipingeva Napoleone come un orco sanguinario. Con queste premesse non c’era da stupirsi che il governo inglese aprisse a uno dei suoi più famosi scrittori i propri archivi, affinché Scott potesse corroborare le sue tesi con materiale autentico. Fu in quegli archivi che Scott trovò notizia di un piano teso a liberare Napoleone da Sant’Elena servendosi di un sottomarino, per poi portarlo in America, dove molti bonapartisti si erano rifugiati in seguito alla caduta dell’Impero. Gli storici hanno a lungo bollato la storia come leggendaria, per quanto ne avesse parlato anche Chateaubriand, il grande scrittore della Restaurazione che servì come ministro degli esteri di Luigi XVIII dopo la caduta di Napoleone, e il conte Montholon, che seguì Napoleone a Sant’Elena e in seguito scrisse le sue controverse memorie, dove aggiunse il dettaglio di 5-6.000 luigi d’oro spesi per la costruzione del sottomarino. Ora lo storico argentino Emilio Ocampo, già autore di un fondamentale volume sui bonapartisti in America, The Emperor’s Last Campaign (“L’ultima campagna dell’Imperatore”), ha pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista “Napolenica”, edita dalla Fondation Napoleon, in cui espone i dettagli dell’incredibile piano.

Il motore a vapore al servizio di Napoleone

Protagonista del complotto fu il capitano irlandese Thomas Johnstone, un personaggio da romanzo a metà tra un avventuriero e un inventore, più volte incarcerato dagli inglesi e sempre capace di fuggire da ogni prigione. Forse per questo, Johnstone prese a cuore il progetto di liberare il più celebre prigioniero dell’epoca dal suo inviolabile esilio. In Francia o forse in Inghilterra, il capitano Johnstone fece la conoscenza di un uomo che di lì a poco avrebbe cambiato la storia della navigazione: si chiamava Robert Fulton.

Nel 1801, poco dopo l’instaurazione del Consolato in Francia, Fulton ebbe modo di presentare al Primo Console Bonaparte l’idea di un sottomarino che avrebbe potuto risolvere il problema che più angustiava il futuro imperatore: invadere l’Inghilterra filando attraverso la Manica prima che la flotta inglese potesse intercettare quella francese. Impresa impossibile data la situazione della marina francese dell’epoca. Ma un sottomarino capace di passare sotto le navi inglesi e riemergere davanti alle bianche scogliere del Dover avrebbe potuto fare la differenza. Napoleone se ne interessò e incaricò una commissione di studiare i primi prototipi di Fulton. Ma nel 1802 Napoleone preferì la pace alla guerra, firmando con gli inglesi un accordo che metteva fine alle ostilità, e il progetto di Fulton perse il sostegno di Parigi. Il primo sottomarino, che si sarebbe dovuto chiamare Nautilus (Jules Verne avrebbe da qui tratto il nome del suo sottomarino in Ventimila leghe sotto i mari), non fu perciò realizzato. Doveva funzionare con un propulsore a quattro pale fatte girare a mano, ma poco dopo Fulton riuscì a inventare un sistema di propulsione che lo avrebbe reso celebre, sfruttando il vapore. Nel 1807 il primo battello a vapore trasportò passeggeri americani da New York a Albany. Fu un trionfo.

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Ma Fulton non aveva dimenticato il suo progetto di sottomarino, e nel 1812 realizzò un nuovo prototipo, questa volta spinto a vapore: il Mute. Lo offrì agli Stati Uniti, dove ora viveva, e che quell’anno (mentre Napoleone veniva sconfitto in Russia) dovette affrontare un nuovo conflitto con l’ex madrepatria inglese. Ben conscio dei progetti di Fulton, il governo inglese decise di replicare affidando al capitano Johnstone il progetto di un sottomarino dello stesso genere da mettere al servizio di Sua Maestà Britannica. Nel 1814 il sottomarino di Johnstone, capace di ospitare sei persone e di restare fino a dodici ore sott’acqua, era pronto; ma all’Inghilterra non serviva più. Johnstone pensò di offrirlo a qualcun altro. Si presentò a Buenos Aires, ma il governo argentino non era interessato all’invenzione, per la quale peraltro il capitano chiedeva una bella somma. Lì, però, Johnstone sarebbe stato contattato da qualcuno che al sottomarino, invece, era davvero interessato. Un gruppo di bonapartisti guidati dall’ex generale Michel Brayer stava progettando in Brasile un assalto a Sant’Elena per liberare il loro vecchio padrone.

Liberate Napoleone!

L’impresa appariva disperata: l’isola era sorvegliata continuamente da diversi vascelli, offriva pochi e pericolosi punti d’approdo, e ospitava oltre duemila soldati inglesi e cinquecento cannoni pronti a respingere qualsiasi attacco. Ma due sottomarini potenziati rispetto al primo prototipo, battezzati Eagle (“Aquila”, il simbolo di Napoleone) e Etna, avrebbero potuto raggiungere la acque di Sant’Elena indisturbati, ed emergere nottetempo per far imbarcare il prigioniero, travestito da cocchiere. In caso di conflitto, i due sottomarini sarebbero stati armati con torpedini capaci di affondare fino a venti vascelli: e infine, sarebbero partiti alla volta degli Stati Uniti, dove Napoleone fin dal 1815 sognava di riparare e dove l’avrebbe atteso il fratello maggiore Giuseppe.

Il medico di Napoleone, O’Meara, irlandese come Johnstone, era il contatto a Sant’Elena: sarebbe stato suo il compito di organizzare la fuga di Napoleone dalla sua residenza sorvegliata di Longwood. Ma nel 1818 il governatore Hudson Lowe espulse O’Meara dall’isola, rimandandolo a Londra. Tornato in Europa, O’Meara godeva di abbastanza credito da poter essere ricevuto a Roma da Letizia Bonaparte, la madre di Napoleone, che si era trasferita nella capitale dei papi dopo la caduta dell’Impero. Notoriamente avara, ma estremamente prodiga quando si trattava del figlio in esilio, Letizia avrebbe accettato di finanziare con 15.000 sterline il progetto di Johnstone. La notizia di fondi ingenti provenienti dalla famiglia Bonaparte versati in Inghilterra allarmò il ministro degli esteri Lord Castleragh, che ne informò il ministro degli esteri francese, il duca di Richelieu.

Anche Hudson Lowe, da Sant’Elena, informò Londra che la corte di Napoleone sembrava tramare qualcosa. Si decise di rinforzare la sorveglianza intorno al prigioniero e ridurne maggiormente gli spazi di libertà. Ma le preoccupazioni dei governi di Londra e Parigi dovevano presto essere fugate: nove mesi dopo, Napoleone esalava il suo ultimo respiro. E nel novembre 1820 il primo sottomarino di Johnstone venne intercettato mentre lasciava il Tamigi, e successivamente smantellato, mentre il secondo – dopo la notizia della morte di Napoleone – non venne completato.

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Napoleone è morto a Sant'Elena?

È vero che tra il 1820 e il 1821 i progetti di liberare Napoleone si moltiplicarono. È noto che a Roma sia Madame Mère (la “Signora Madre”, come veniva chiamata Letizia Bonaparte) sia Paolina Bonaparte, nei loro bei palazzi, ricevevano diversi importanti esponenti del governo inglese per far loro abbracciare la causa di Napoleone. Ed è poco noto, invece, che il 5 maggio 1821, in quello che è oggi Palazzo Bonaparte, e che affaccia su Piazza Venezia, a Roma, un uomo s’intrufolò nel salotto di Madame Mère per annunciare che suo figlio, Napoleone, era finalmente salvo. Lo sconosciuto, che ai presenti diede l’impressione di somigliare proprio all’ex imperatore, scomparve senza che la polizia pontificia riuscisse a individuarlo. Pochi mesi dopo giunse anche a Roma la notizia che quello stesso giorno – il 5 maggio – Napoleone era morto a Sant’Elena. E quella vicenda resta un affascinante mistero che irrobustisce un’ipotesi romanzesca: Napoleone non è morto a Sant’Elena.

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