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Se anche in America gli scienziati sono disoccupati

La crisi mondiale colpisce anche la ricerca scientifica americana: tra ingegneri della NASA che mendicano posti in Italia e dottori di ricerca che si uniscono al movimento “Occupy Wall Street”, l’età d’oro della scienza USA è tramontata.
A cura di Roberto Paura
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Lo slogan della loro protesta è scritto nel linguaggio matematico ma è di una chiarezza disarmante: “PhD ≠ Job”. Vale a dire, il dottorato di ricerca non garantisce la certezza di un lavoro. Una verità che studenti universitari, dottorandi e ricercatori italiani conoscono bene da tempo, ma che stona su un cartello agitato dai partecipanti del movimento “Occupy Wall Street”. È l’immagine che nessuno si aspettava di vedere: la crisi economica ha colpito anche il settore della ricerca scientifica americana, il motore dell’innovazione scientifica e tecnologica mondiale. Quello slogan ricorda ai nostri cervelli italiani di pensarci due volte, qualora decidessero di seguire le orme di Enrico Fermi, Renato Dulbecco o Riccardo Giacconi – per citare tre Premi Nobel italiani che quando vennero insigniti dell'ambito riconoscimento avevano in realtà la cittadinanza americana. I tempi sono davvero cambiati.

Cervelli in fuga… dagli States

Lo ha raccontato, tra gli altri, Roberto Battiston, tra i più eminenti fisici sperimentali italiani, in un intervento sul numero di settembre del mensile Le Scienze. “Mi telefona dagli Stati Uniti uno dei capi ingegneri della NASA con cui collaboro da vent’anni”, racconta Battiston. “Sta cercando lavoro: è uno delle migliaia di ingegneri e tecnici della NASA che con la fine del programma Shuttle stanno lasciando l’istituzione che rappresenta l’idea stessa di spazio”. Quanti giovani si sono iscritti ai corsi di ingegneria aerospaziale in Italia con il sogno di andare a lavorare alla NASA? Praticamente tutti. È un brutto colpo scoprire che ora i cervelli migliori dell’ente spaziale americano vengono a bussare alla porta dei colleghi italiani per mendicare un lavoro. Ma non sono i soli.

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Il mese scorso si è spento il Tevatron, l’acceleratore di particelle dei Fermi National Laboratories poco fuori Chicago. Fino al 2008, quando l’acceleratore LHC del Cern di Ginevra è diventato operativo, era il più potente acceleratore di particelle del mondo. Gli americani che ci lavoravano erano convinti di riuscire a battere i loro colleghi europei nella caccia alla particella di Dio, il bosone di Higgs, “Santo Graal” della fisica delle particelle su cui si concentrano gli sforzi del Cern. Non ci sono riusciti. Il governo USA ha ammesso che il Tevatron non è più al passo con i tempi e, invece di investire per realizzare un acceleratore più potente, ha deciso di premere il testo “off”. Non tutti l’hanno presa bene. Per Bill Foster, un fisico veterano del Tevatron che ha deciso di buttarsi in politica candidandosi al Congresso con il Partito democratico, “è una fine amara”: “Il declino della fisica delle particelle negli Stati Uniti è un sintomo degli atteggiamenti sbagliati e talvolta anti-scientifici di Washington”, ha commentato Foster. Atteggiamenti che partono da lontano. Almeno da quando, nel 1993, venne deciso di abbandonare il progetto SSC (Superconducting Super Collider), che avrebbe dovuto superare l’LHC di Ginevra e sorgere in Texas. Mancavano i fondi.

Quegli stessi fondi che ora mancano alla NASA. Dopo decenni di glorioso servizio, gli Shuttle sono andati in pensione senza essere rimpiazzati da nuovi veicoli per andare nello spazio. A molti americani, l’idea di dipendere dai Soyuz russi per mandare i propri astronauti in orbita non piace affatto. Un paese senza accesso diretto allo spazio non è una superpotenza. E gli Stati Uniti, in questo momento, non ne hanno l’accesso. Tra il presidente Obama e il Congresso c’è stato un lungo braccio di ferro sull’argomento, di cui ancora oggi s’ignora chi sia il vero vincitore. Quello che è certo è che il successore dello Shuttle non sarà pronto prima dei prossimi dieci anni, e per allora gli Stati Uniti rischiano di essere sorpassati agevolmente dalla Cina anche nella corsa per ritornare sulla Luna.

Gli scienziati sul piede di guerra

Tra i manifestanti di “Occupy Wall Street” c’è Brandie Cross, al quinto anno di un dottorato di ricerca in biochimica alla John Hopkins University. Si è specializzata nel settore dei tumori al seno, ma al momento non vede davanti a sé prospettive di occupazione. Il suo desiderio è quello di mettere su un’azienda di biotecnologie per mettere a frutto le competenze acquisite in tanti anni di studio. Ma il National Institute of Health, l’ente statale per la sanità, le ha detto chiaro e tondo che i soldi per i finanziamenti non ci sono. C’è anche, tra i giovani della protesta, il dottor Troy Rubin, neuroscienziato proveniente dalla stessa università di Brandie. Per lui, il problema è più generale: “Viviamo in una società dove il sapere è meno apprezzato del denaro”, dice. “Una società motivata dall’economia è fondamentalmente insostenibile”.

Secondo Marc Kuchner, astrofisico della NASA, che ha raccolto queste testimonianze per il sito del periodico Scientific American, gli scienziati hanno molte ragioni per protestare: l’incapacità del Congresso di adottare politiche per il rilancio della ricerca e dell’innovazione, la mancata adozione di una legislazione per contrastare il cambiamento climatico, l’assenza di una strategia nel settore spaziale, e la crisi che ha colpito l’insegnamento delle materie scientifiche. Sì, perché anche negli Stati Uniti i corsi universitari di matematica, scienze e ingegneria non tirano più come prima. I ragazzi sanno che, dopo, dovranno fare i conti con la cronica mancanza di fondi del settore. Dopo il PhD, il dottorato di ricerca, li aspetta una lunga lotta per cercare di ottenere i finanziamenti pubblici per continuare a restare a galla, anno dopo anno.

La crisi dell'insegnamento scientifico

[quote|left]|Appena il 50% degli americani adulti è capace di rispondere correttamente alla domanda su quanto tempo impiega la Terra a compiere una rivoluzione intorno al Sole.[/quote]Gli effetti, secondo Kuchner, sono già evidenti. L’ignoranza scientifica, in America, dilaga. Appena il 50% degli americani adulti è capace di rispondere correttamente alla domanda su quanto tempo impiega la Terra a compiere una rotazione intorno al Sole. E solo il 59% sa che i primi uomini e i dinosauri vissero in periodi diversi. Un sondaggio Gallup di qualche anno fa scoprì con orrore che il 45% degli statunitensi è convinto che Dio abbia creato l’uomo nella sua forma attuale circa diecimila anni fa, rifiutando non solo l’evoluzionismo ma anche buona parte di quello che la scienza ha scoperto sul nostro mondo e sull’universo.

Uno spot del gruppo Intesa San Paolo di un anno fa mostrava un ricercatore italiano negli Stati Uniti che decideva di tornare a lavorare in Italia, nella propria città, scoprendo quant’è avanzata la ricerca scientifica nel nostro paese e affermando alla fine: “Qui è molto meglio dell’America”. Si scatenò il putiferio e ci furono anche video di risposta che mostravano la realtà della nostra ricerca. Tutto vero. Ma se l’Europa piange, l’America non ride. E forse, quando i nostri migliori cervelli decideranno di andare a chiedere un visto per gli USA, sarà il caso di suggerire loro altre destinazioni.

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