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Nuova conferma per l’entanglement, il più grande mistero della fisica

L’équipe dell’austriaco Anton Zeilinger, padre del teletrasporto quantistico, conferma ancora una volta la realtà del fenomeno che sconvolgeva Einstein.
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A cura di Roberto Paura
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È il mistero che faceva perdere il sonno ai padri della meccanica quantistica, da Niels Bohr ad Albert Einstein. A quest’ultimo l’idea non piaceva affatto, e anzi fu il primo a sollevarla per dimostrare l’infondatezza della fisica dei quanti per spiegare la vera natura della realtà. Ma alla fine le prove sperimentali gli diedero torto. È l’entanglement, termine che sta per “intreccio” e che rappresenta il paradosso più difficile da accettare della teoria dei quanti, poiché implica un’azione “fantasmatica” a distanza, cioè senza nessuna intermediazione, violando anche il principio per cui nessun’informazione può superare la velocità della luce. Fu proprio Einstein a usare quelle irridenti parole – “azione fantasmatica a distanza” – ormai entrate nella storia per definire l’entanglement. Ma negli anni ’80 il fenomeno fu per la prima volta dimostrato sperimentalmente e pochi giorni fa Anton Zeilinger, il guru del teletrasporto quantistico, ne ha data una nuova inoppugnabile dimostrazione.

L'esperimento mentale di Einstein

EPR

Nel 1935, prima sulla rivista “Physical Review” e poi con un articolo sul “New York Times” destinato al grande pubblico, venne annunciato il cosiddetto paradosso EPR. Le tre lettere erano le iniziali di Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, due fisici più giovani del padre della relatività che iniziarono a collaborare con lui al MIT per dimostrare l’infondatezza della teoria dei quanti così come fino ad allora formalizzata. Il paradosso proposto era un esperimento mentale del tipo di quelli elaborati da Einstein a più riprese nel corso della sua carriera. L’idea è semplice: se due particelle, poniamo due fotoni, chiamati A e B, dopo aver interagito per un istante si allontanano in direzioni opposte, ciascuna conserverà una parte del moto totale delle due particelle. La quantità di moto, secondo le leggi della fisica, viene cioè “divisa” tra i due fotoni. E fin qui tutto bene. Ora, se lo sperimentatore osserva il fotone A e calcola la sua quantità di moto, riuscirà a ricostruire facilmente la quantità di moto di B. Niente di straordinario: l’esempio classico è quello per cui usciamo di casa con un solo guanto e notiamo che è quello destro, per cui sappiamo automaticamente che abbiamo lasciato a casa il sinistro.

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Ma nel mondo dei quanti le cose non sono così semplici. Il guanto sinistro è sempre quello, sia che lo portiate con voi sia che resti a casa lontano dai vostri occhi. Viceversa, le particelle quantistiche non hanno una loro identità finché non si compie una loro osservazione. Applicando il concetto al mondo macroscopico, quello che sperimentiamo tutti i giorni, è come se il guanto sinistro lasciato a casa restasse in uno stato di indeterminazione sulla sua effettiva identità – guanto destro o guanto sinistro? – finché voi non osservate che quello che avete in tasca è il guanto destro, e quindi quello che è rimasto nel cassetto non può che essere il sinistro. Se tutto ciò è già di per sé sconvolgente, la cosa assume i toni della pura fantascienza nel momento in cui la meccanica quantistica non impedisce che questo fenomeno tecnicamente definito “collasso della funzione d’onda” (il momento in cui il vostro guanto “diventa” sinistro perché voi avete quello destro) avvenga istantaneamente a velocità superluminali. Ritornando al paradosso EPR, se lo sperimentatore misura la quantità di moto del fotone A, istantaneamente da qualsiasi altra parte dell’universo si trovi il fotone B – anche lontano molti anni-luce – la sua funzione d’onda collassa e assume la quantità di moto prevista, mentre prima dell’osservazione del fotone A si trovava in uno stato di totale indeterminazione.

La conferma dell'entanglement

Era chiaro che Einstein aveva trovato una crepa nella teoria dei quanti. Se si accettava la teoria, si doveva accettare il paradosso EPR e quindi anche un principio di non-località, ossia il fatto incontrovertibile che l’entanglement, la “relazione” tra le particelle quantistiche, si mantiene a prescindere dalla distanza nello spazio e al di là della limitazione relativistica della velocità della luce. Dopo il fallimento di alcuni tentativi di dimostrare l’infondatezza del paradosso, i fisici dei quanti decisero di non pensarci più. Einstein o meno, la meccanica quantistica funzionava davvero, e ciò bastava alla scienza: domande di natura filosofica vennero messe da parte negli anni della guerra e in quelli della Guerra fredda, in cui i fisici divennero ingranaggi della grande macchina della Difesa contro la minaccia nucleare sovietica.

anton_zeilinger

Ma le cose cambiarono nei decenni successivi. Stimolato dalle ricerche teoriche di John Bell negli anni ’60 sulla coerenza del fenomeno dell’entanglement, il fisico sperimentalista francese Alain Aspect nel 1982 riuscì per la prima volta a realizzare quello che per Einstein era un semplice esperimento mentale. Si dimostrò incontrovertibilmente che l’entanglement era reale, e che per quanto paradossale fosse il fenomeno esso era pur tuttavia concreto. In quegli anni, molti fisici cominciarono a chiedersi quello che probabilmente anche il lettore ora si starà chiedendo: sarebbe possibile utilizzare l’entanglement per comunicare a distanze enormi superando il limite della velocità della luce? Successivi esperimenti e analisi teoriche hanno portato a rispondere negativamente alla domanda, poiché non sembra possibile poter controllare il processo di entanglement: lo sperimentatore può solo osservare e misurare una grandezza di una particella, ma i limiti della meccanica quantistica impediscono che la possa manipolare per modificare l’esito del collasso della funzione d’onda nella particella entangled.

Qualcosa però si può fare: il teletrasporto. Non quello di Star Trek, purtroppo, ma solo quello di singoli fotoni che, come è noto, non possiedono massa. È possibile cioè utilizzare l’entanglement per “copiare” alcune proprietà di un fotone A – come il suo spin – e trasferirle a un fotone B distante nello spazio. È da qui che il gruppo di ricerca dell’austriaco Anton Zeilinger ha mosso i primi passi in un settore del tutto nuovo, confermato da continui esperimenti di frontiera, l’ultimo pochi giorni fa, che secondo lo scienziato potrebbe aprire la strada all’applicazione del fenomeno dell’entanglement anche a sistemi macroscopici, ossia a oggetti del mondo quotidiano.

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