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Non è sperimentazione, ma crudeltà: microbiologa rifiuta una ricerca e rivela cosa subivano i topi

La microbiologa Elies Bik si rifiuta di pubblicare uno studio che doveva revisionare perché i metodi utilizzati sui topi non potevano essere considerati sperimentazione, ma crudeltà. Ecco cosa subivano gli animali.
A cura di Zeina Ayache
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Il settore della ricerca scientifica si divide tra coloro che ritengono necessaria la sperimentazione animale e coloro che, invece, si schierano dalla parte dei metodi alternativi. Chi abbia torto o ragione non ci interessa, non ora comunque. Ciò che attira la nostra attenzione è la diatriba nata in seguito ad alcune dichiarazioni della microbiologa Elies Bik che, come racconta lei stessa, si è rifiutata di pubblicare una ricerca i cui risultati sono stati ottenuti attraverso una sperimentazione che è andata oltre la necessità scientifica sfociando in crudeltà.

Come spiega lei stessa su Twitter, la vicenda è nata in occasione della revisione di uno studio sui batteri dell’intestino interessato a capire se possano essere associati alla depressione. Nel corso della lettura della ricerca, nella sezione “metodi”, la microbiologa racconta di essere rimasta negativamente colpita dalla tipologia di trattamenti riservati ai topi per ottenere i risultati vantati: “erano orribili”, dichiara.

“I topi venivano trattati con svariati tipi di stimoli come elettrochoc multipli nel giro di un minuto, immersione forzata in acqua calda o fredda, privazione di cibo e acqua per 48 ore, immobilizzazione per cinque ore ed esposizione a forti rumori e luci stroboscopiche. Ogni animale ha ricevuto questi trattamenti una o due volte al giorno per 28 giorni. In pratica un mese di torture”.

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La microbiologa ci tiene a sottolineare di non essere contraria alla sperimentazione animale, ma ha considerato questi trattamenti “orrendi e sproporzionati”. Inoltre dubita che i metodi utilizzati rientrino tra quelli concessi.

Un altro importante punto è l’utilità delle torture. Trattandosi di una ricerca che lega i batteri dell’intestino con la depressione, si presuppone che i soggetti studiati siano depressi. Ma quindi questi metodi servivano per indurre la depressione nei topi? No, dichiara la microbiologa, ma inducevano solo stress estremo. “Posso solo immaginare la paura che questi animali potevano provare quando sentivano aprirsi la porta del laboratorio”, afferma Bik.

Ma perché studiare i batteri intestinali di animali in cui non è possibile indurre la depressione per studiarne una relazione, quando si potrebbe effettuare lo stesso studio direttamente su esseri umani a cui è stato diagnosticato questo disturbo dell’umore? Questo non è chiaro.

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