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Malattia di Parkinson, una giornata per non dimenticare

La giornata del 30 novembre ha l’obiettivo di sensibilizzare su un tema ancora troppo delicato perché, nonostante i passi avanti nella ricerca, il Parkinson non è un ricordo del passato.
A cura di Nadia Vitali
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degenerazione della substantia nigra
degenerazione della substantia nigra

Benché se ne senta parlare con fortuna alterna, la malattia di Parkinson è ancora lontana dall'essere debellata e le sue cifre costituiscono fonte di preoccupazione; essa colpisce circa il 3 per mille della popolazione generale, rapporto che passa all'1% circa per quella di età superiore ai 65 anni. In Italia sono 300.000 le persone affette, per lo più di sesso maschile (circa 1,5 volte in più) e l'età di esordio oscilla tra i 59 e i 62 anni, almeno in media: sì perché negli ultimi tempi si è assistito ad un forte incremento di diagnosi in età più giovane (un paziente su 4 ha meno di 50 anni, il 10% ha meno di 40 anni), anche in ragione del fatto che la scienza oggi ha meno difficoltà a dare un nome a dei sintomi che, in passato, sarebbero stati di più difficile interpretazione. Se si aggiunge a ciò il fatto che, secondo gli scienziati, il danno cerebrale vada retrodatato di circa sei anni rispetto al manifestarsi dei primi sintomi, ci si rende conto di come ormai il Parkinson non possa più essere confinato entro i limiti delle malattie che riguardano esclusivamente la terza età.

Insomma, non solo non è il caso di abbassare la guardia ma, anzi, probabilmente una consapevolezza maggiore sul Parkinson potrebbe costituire un'esigenza di prim'ordine: anche da qui deriva la Giornata della Malattia di Parkinson che il 30 novembre sarà un'occasione per far conoscere questo male «non a livello clinico e di ricerca, ma a livello comunicativo» come spiegato da Claudio Pacchetti, responsabile dell’Unità Operativa Parkinson e Disordini del movimento dell’Istituto Neurologico C. Mondino di Pavia, sul sito di Parkinson Italia. «Non è che ci sia reticenza a parlare di questa malattia, ma la verità è che il Parkinson, in quanto malattia cronica neuro-degenerativa, non fa notizia. O meglio, la fa soltanto quando un malato, come effetto collaterale della cura farmacologica cui deve sottoporsi, finisce per giocarsi tutto alle slot machine o si dedica allo shopping compulsivo». Amara constatazione che, tuttavia, centra una delle problematiche maggiori di una malattia rispetto alla quale saranno necessari ancora molta ricerca e quindi molti investimenti per vedere finalmente dei risultati. In ogni caso, la conoscenza del male da parte della scienza progredisce e le più recenti scoperte nel campo medico potrebbero portare ad una svolta nell'approccio terapeutico.

Origini e cause

Il Parkinson rientra tra le malattie neuro-degenerative e viene causato dalla morte progressiva dei neuroni situati nella substantia nigra, piccola area del mesencefalo che attraverso il neurotrasmettitore dopamina sovraintende ai movimenti corporei; i pazienti con diagnosi di Parkinson, così, perdono il controllo sul proprio corpo sperimentano tremori, rigidità, lentezza nei movimenti, tendenzialmente quando hanno già perduto circa la metà delle cellule nervose dopaminergiche. Benché sia stata descritta per la prima volta nel 1817 dal dottor James Parkinson, non ne sono ancora note le cause: naturalmente di ipotesi ne sono state fatte e possono essere riassunte in due grandi categorie sulle quali si sono concentrate le ricerche degli ultimi anni. Da una parte gli studi epidemiologici suggeriscono fattori ambientali, individuando nell'esposizione a pesticidi e metalli pesanti elementi in grado di incrementare fortemente il rischio di sviluppare il male; dall'altra c'è chi indica un difetto genetico come responsabile della malattia, già identificato nel 20% di pazienti che avevano precedenti di Parkinson in famiglia. Considerando il quadro ancora troppo poco chiaro della patologia, si comprende facilmente come questa sia stata principalmente contrastata a livello sintomatico e non nel suo progredire; i farmaci, per altro, perdono efficacia con l'aggravarsi della malattia e possono anche generare problemi psichici, dalla semplice confusione fino alle allucinazioni.

Prospettive terapeutiche

Un nuovo orizzonte al quale si guarda è costituito dalla terapia staminale, grande speranza per la medicina del futuro ma ancora tutta da esplorare: una sperimentazione che ha preso il via nel nostro Paese nel dicembre del 2012 mira proprio a verificare concretamente tale possibilità. Lo studio "avveniristico" guidato dal Professor Gianni Pezzoli, direttore del Centro Parkinson presso gli Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano, muove dalla volontà di riuscire a sostituire le cellule danneggiate e morenti con cellule sane che possano ripristinare le funzioni originarie: in questo modo la malattia potrebbe essere rallentata e, se anche il paziente non trovasse la guarigione attraverso tale metodo, risulterebbe fortemente ridotta la dipendenza da farmaci. Al momento la sperimentazione è ancora nella primissima fase: cinque pazienti sono stati reclutati tra quelli affetti da forma grave di parkinsonismo (Paralisi Supranucleare progressiva) per essere trattati, attraverso infusione intravenosa, con cellule provenienti dallo stesso paziente e coltivate in vitro; ad oggi in tre hanno subito l'impianto e per i primi due sono già passati sei mesi durante i quali non sono stati registrati né effetti collaterali né progressione della malattia. Un buon risultato ma ancora troppo poco dal momento che la fase preliminare non si è ancora conclusa: se l'esito però dovesse essere positivo, lo studio proseguirà con una coorte di 20 soggetti. Nello specifico, il trattamento prevede il prelievo di midollo osseo e, da lì, la coltivazione delle cellule staminali mesenchimali in laboratorio e successivamente l'introduzione fino al cervello del paziente. A margine va ricordato che per ogni paziente vengono investiti 35.000 euro: giusto per non dimenticare che la ricerca scientifica ha bisogno di una fonte di sostentamento, soprattutto quando non si fa pubblicità a suon di schiamazzi in piazza. È bene ricordarlo, quando si parla di una malattia molto presente, sempre più giovane, troppo spesso dimenticata.

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