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L’allarme del sociologo dei media: “Troppa tecnologia danneggia gli studenti”

La prima indagine sugli studenti italiani mostra che un uso intensivo di Internet senza una guida può influire negativamente sui risultati scolastici danneggiando concentrazione e apprendimento. Ce ne parla Marco Gui dell’Università Milano-Bicocca.
A cura di Roberto Paura
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Brutte notizie in arrivo: l’uso intensivo di Internet peggiora i risultati scolastici e riduce le capacità di concentrazione e apprendimento. È quel che sembra emergere dal primo studio realizzato in Italia sul tema, presentato al Wired Next Fest di Milano da Marco Gui, ricercatore al dipartimento di sociologia e ricerca sociale all’Università di Milano-Bicocca. La ricerca è stata svolta su un campione di 2400 studenti di scuole superiori della Lombardia, attraverso un questionario sull’utilizzo di Internet incrociato poi con i risultati conseguiti dagli studenti nei test INVALSi per l’anno scolastico 2011/2012. Le domande nel questionario andavano dalle ore di utilizzo quotidiano dei social network a quelle impiegate per giocare online, dalla frequenza dell’uso di Internet per lo studio a quello per la creazione di contenuti originali, come per esempio la gestione di un blog. E in tutti i casi i grafici mostrano una correlazione negativa tra utilizzo intensivo del web e risultati scolastici.

Internet vs. scuola

Il grafico riassuntivo dello studio mostra un andamento "a montagna": superata una certa soglia, la correlazione positiva tra uso di Internet e capacità cognitive secondo il test INVALSI diventa drasticamente negativa.
Il grafico riassuntivo dello studio mostra un andamento "a montagna": superata una certa soglia, la correlazione positiva tra uso di Internet e capacità cognitive secondo il test INVALSI diventa drasticamente negativa.

“C’è un’associazione negativa superata una soglia che corrisponde a un uso moderato di Internet, ma non è necessariamente un rapporto causale”, chiarisce Gui a Fanpage.it. “Nei grafici emerge quest’associazione, ma la causa potrebbe essere inversa: chi non ha voglia di studiare tende a stare più tempo su Internet. Risulta evidente comunque che i due comportamenti sono collegati. E siccome queste associazioni sono già al netto di variabili di controllo – genere, status sociale – viene il sospetto che vi sia anche un rapporto di causalità, tale da metterci in guardia nei confronti di una visione troppo pro-tecnologia sia a scuola che a casa”. Quella della Milano-Bicocca è la prima ricerca in Italia sul rapporto tra media digitali e risultati scolastici, ma è in linea con quanto emerso dall’analisi PISA, l’analogo internazionale degli INVALSI: “Quell’indagine si svolse nel 2009, e due anni dopo uscirono le prime pubblicazioni, mettendo in luce fenomeni simili a quelli riscontrati nella nostra ricerca: curva a montagna, rapporto con un apice che va a diminuire”, spiega Marco Gui.

Proprio la ‘curva a montagna’ dimostra in maniera graficamente impattante la conclusione dell’analisi dei ricercatori milanesi. Infatti, se inizialmente la correlazione tra ore di utilizzo di Internet e risultati scolastici è positiva, al superamento di una certa soglia il trend s’inverte: la linea nel grafico scende a picco verso i valori più bassi registrati nel test INVALSI. Marco Gui cerca di avanzare delle ipotesi sul perché. “Siamo ancora in uno stadio in cui l’utilizzo della tecnologia finalizzato ad apprendimento e conoscenza è sottosfruttato”, spiega. “Quando abbiamo chiesto ai ragazzi che uso fanno di Internet, abbiamo incluso anche quello scolastico. Ma l’indice che analizza l’uso del Web nella scuola non ci dice che cosa fanno i ragazzi precisamente: possono semplicemente copiare informazioni, cose già fatte, e questo sarebbe un uso negativo. Oppure potrebbero cercare approfondimenti e spiegazioni su quello che hanno appreso in classe, e questo sarebbe l’uso positivo. L’indice è dunque ancora abbastanza grezzo”.

Nativi digitali

Sorprendentemente, anche gli studenti che passano molto tempo su Internet per produrre contenuti nuovi e originali, per esempio curando un blog o un sito web, denotano uno scarso rendimento nei test INVALSI. Non solo: “Nella nostra ricerca emerge che gli studenti che creano i contenuti sono più quelli che fanno formazione professionale, che frequentano cioè le scuole meno avvantaggiate dal punto di vista dei livelli di apprendimento. I ragazzi dei licei tendono a usare di più Internet nella ricerca di informazioni”, rivela Gui. “Questo potrebbe dipendere dal fatto che i ragazzi dei licei, con ceto mediamente più alto, tendono a fare più attività extrascolastiche pomeridiane, per esempio sport, corsi di inglese ecc., mentre i ragazzi del professionale di solito hanno più tempo libero da gestire. Magari esprimono di più la creatività rispetto ai licei”. E proprio la misura della creatività esula dai dati dei test INVALSI.

Marco Gui, ricercatore al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Milano-Bicocca.
Marco Gui, ricercatore al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Milano-Bicocca.

È difficile infatti capire se i nuovi nativi digitali stanno magari apprendendo sul web competenze nuove, che sfuggono alle tradizionali rilevazioni delle capacità di apprendimento. “Questi ragazzi che fanno attività di creazione di contenuti magari non vanno benissimo nei test INVALSI, ma forse stanno acquisendo competenze grafiche o professionali per il web. Questo è un quesito aperto difficilmente analizzabile quantitativamente”, ammette Gui. “Anche l’apprendimento potrebbe essere un elemento in evoluzione, le competenze importanti nella società dell’informazione potrebbero essere diverse rispetto a quelle tradizionali. Resta però l’importanza di essere in grado di leggere e comprendere un testo scritto, di svolgere operazioni logiche e così via: quello che i test INVALSI misurano”.

Il bisogno di staccare la spina

A questa ricerca se ne aggiunge un’altra portata avanti dal dipartimento di sociologia della Milano-Bicocca presso l’istituto comprensoriale “Leone XII” di Milano: “Qui nelle prime media abbiamo svolto una sperimentazione, un’attività di media-education consistente – tra l’altro – nel proporre un’astinenza da Internet di alcuni giorni”, racconta Marco Gui. “Al termine dell’esperienza, tra le cose positive guadagnate, i ragazzi indicavano una maggiore concentrazione, magari nella lettura di un libro, che prima non era possibile. Questi dati possono essere quindi interpretati anche in questo senso: Internet non favorisce la concentrazione. Messaggini, notifiche, post su Facebook interrompono continuamente le nostre attività e la nostra concentrazione”.

Una constatazione che sta portando molti studiosi a lanciare l’allarme su una vera e propria epidemia, la sindrome del deficit di attenzione, che da disturbo legato all’infanzia e alla prima adolescenza si sta ora diffondendo anche negli adulti web-dipendenti. “La mia posizione con i dati disponibili è che l’uomo di cultura di oggi deve saper bilanciare queste due dimensioni, l’uso di Internet e quindi la navigazione tra molteplici fonti e la capacità di concentrazione profonda su una sola fonte”, afferma Gui. “L’unico modo in cui l’uomo può essere davvero creativo e produrre qualcosa di veramente nuovo è attraverso la concentrazione. Per questo, la grande sfida dell’era digitale sarà quella di sapersi ritirare di tanto in tanto dal flusso degli stimoli, di staccare ogni tanto la spina”.

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