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Il cibo che vogliamo?

Un video che in pochi secondi illustra gli aspetti più contraddittori dell’agricoltura globale, cercando di sensibilizzare su quelle che potrebbero essere le nuove strade da percorrere: sostenibilità, filiera corta, sostegno alle piccole realtà.
A cura di Nadia Vitali
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agricoltura sostenibile

In un mondo ideale coglieremmo i frutti nel nostro piccolo angolo di terra per sfamare noi stessi e la nostra famiglia, stringendo alleanze ed accordi con gli altri uomini al fine di aiutarci vicendevolmente: purtroppo, però, nella realtà l'animo umano, a dispetto di evoluzione e progresso, si mostra sempre fin troppo incline a coltivare con maggior piacere la prevaricazione ed il conflitto, piuttosto che l'orto. E del resto, se anche tutti gli uomini si rendessero conto dei benefici della cooperazione e seppellissero in un colpo solo le asce di guerra, il problema dell'alimentazione resterebbe piuttosto complesso con l'imprevedibilità meteorologica che costituiva già in epoche passate la più grande tra le paure dei contadini che, non di rado, si trovavano a fronteggiare alluvioni e siccità capaci di distruggere il lavoro (e gli approvvigionamenti) di intere stagioni. Oggi il problema risulta moltiplicato in maniera esponenziale, con una popolazione composta da sette miliardi di individui che crescono a ritmi costanti e la necessità per questo indispensabile di ricorrere a tutti gli strumenti possibili che siano in grado sfamarci.

Per rispondere ad una domanda che è sempre più alta, dunque, l'uso di prodotti chimici e fertilizzanti è purtroppo ancora indispensabile, a fronte di un'agricoltura biologica che resta ancora una nicchia relativamente sfruttabile, quando non una vera e propria utopia destinata a sognatori "con scarso senso pratico": insomma, il mondo ideale dei coltivatori diretti è realizzabile soltanto in misura ridotta. Eppure per riscrivere le sorti di un Pianeta sovrasfruttato e, a parer di molti, avviato verso un collasso ormai inevitabile a causa dell'inquinamento e delle alterazioni apportate all'ambiente, le strade che portano verso un futuro compatibile con le esigenze di ciascun singolo individuo passano anche per le nuove regole di un'agricoltura dal volto "più umano" e meno globalizzato: Food we want è il progetto finanziato dall'Unione Europea che coinvolge otto Paesi del mondo con l'obiettivo di sensibilizzare sul tema del futuro del cibo, promuovendo idee e soluzioni per l'agricoltura familiare e sistemi alimentari sostenibili, con un occhio di riguardo alle aree geografiche in cui lo sfruttamento dei terreni e della manovalanza assume ancora caratteristiche marcatamente colonialiste.

Per la campagna Food we want, l'Istituto Oikos ha realizzato questo video che, brevemente ed eloquentemente, illustra tutte le contraddittorie caratteristiche di quell'agricoltura su scala "industriale" che, per molti Paesi, sta costituendo un fattore in grado di determinare un ulteriore aggravamento delle condizioni non solo ambientali ma anche sociali: paradossalmente, più della metà del cibo consumato dagli abitanti di tutto il Pianeta viene prodotto annualmente dall'agricoltura familiare e contadina nel Sud rurale del mondo dove si affolla circa il 75% di quel miliardo di individui che, ancora oggi, soffre la fame. Insomma, per quanto la crisi economica abbia portato ad un considerevole aumento del costo delle materie prime a partire dal 2008, secondo le rivelazioni effettuate dalla FAO, il prezzo di questo incremento non è stato pagato esclusivamente dai consumatori ma anche, e soprattutto, dagli stessi contadini, oggi sempre più poveri e costretti a scendere a patti con le grandi multinazionali della filiera agricola, a svendere i propri terreni (land grabbing) o a impiantare su di essi le monocolture più richieste dai Paesi esteri: impoverendo così, al contempo, lo stesso suolo. C'è una soluzione a tutto questo? I teorici dell'agricoltura sostenibile sostengono di sì, come illustra lo stesso video, scegliendo di potenziare il mercato dei prodotti "a chilometri zero" frutto di colture locali che non ricorrono al turpe meccanismo dello sfruttamento della miseria più povera e chiedendosi: è davvero questo il cibo che vogliamo?

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