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“Houston, abbiamo avuto un problema qui”: 45 anni dopo Apollo 13

Uno dei più celebri fallimenti del programma spaziale americano che, per fortuna, non si trasformò in tragedia.
A cura di Nadia Vitali
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I direttori di volo esultano al successo dello splashdown che concluse la missione il 17 aprile del 1970
I direttori di volo esultano al successo dello splashdown che concluse la missione il 17 aprile del 1970

Cinque minuti dopo il lancio John Swigert, Fred Haise e James Lovell sentirono una piccola vibrazione: era l’11 aprile del 1970, ci si era appena alzati in volo da Cape Canaveral e già qualcosa andava storto. Uno dei cinque motori venne spento a causa dei problemi che stava avendo e per evitare danni più gravi: i rimanenti quattro, quindi, dovettero funzionare per 34 secondi in più rispetto a quanto pianificato, con il terzo stadio che venne fatto bruciare più a lungo per posizionare l’Apollo 13 in orbita. In ogni caso, dopo questo primo e rischioso incidente, la missione sembrava destinata a proseguire.

Sostituzioni dell'ultimo minuto

Si cominciava nel peggiore dei modi ma anche le premesse precedenti non erano state delle migliori: qualche giorno prima della missione, si scoprì che il pilota di riserva del modulo lunare, Charles Duke aveva la rosolia. Poiché il pilota del modulo di comando Ken Mattingly non era immunizzato dalla malattia si scelse di sostituirlo con Swigert. In ogni caso, adesso l’equipaggio era in orbita e sembrava che le cose stessero andando bene.

Un viaggio ordinario e "noioso"

Durante i primi due giorni di viaggio, anzi, Apollo 13 appariva come una missione terribilmente ordinaria (ormai era già la terza volta che la NASA spediva degli esseri umani sulla Luna) e priva di imprevisti degni di nota. 46 ore e 43 minuti dopo il lancio, il radiofonista di contatto con la capsula, o Capcom, Joe Kerwin ebbe a osservare che il veicolo spaziale era veramente in ottima forma e che questo destava delle preoccupazioni: laggiù, infatti, si stavano «annoiando a morte». Ecco, diciamo che da allora queste forme di ironia e in particolare i riferimenti alla noia sarebbero stati banditi per un bel po’.

55 ore e 46 minuti: l’equipaggio ha appena concluso una trasmissione con la televisione nella quale ha mostrato i comfort della vita e del lavoro nella capsula in assenza di gravità. Il comandante Lovell saluta così: «Qui è l’equipaggio dell’Apollo 13 che augura a tutti una buona serata mentre noi siamo quasi pronti per terminare la nostra ispezione di Acquarius e tornare per una piacevole serata su Odyssey. Buona notte». Non fu affatto una buona notte. Acquarius, per intenderci, era il modulo lunare mentre Odyssey era il modulo di comando.

Da sinistra Lovell, Swigert e Haise
Da sinistra Lovell, Swigert e Haise

«Houston, abbiamo avuto un problema qui»

Nove minuti dopo la comunicazione, il serbatoio dell'ossigeno numero 2 del modulo di servizio esplose, danneggiando anche il serbatoio numero 1. Le riserve di elettricità, luce e acqua del modulo di comando erano andate perdute: e tutto a 321.860 chilometri di distanza dalla Terra. Mentre nel quartier generale della NASA erano le 21:08 del 13 aprile giunse come un colpo secco la voce di Lovell con una frase diventata storica (benché nella versione sbagliata, almeno in traduzione): «Houston, abbiamo avuto un problema qui». Dall'oblò sinistro, il comandante vide che "perdevano" del gas nello spazio: era l'ossigeno che usciva dal serbatoio numero 2.

Verso casa

Da un certo punto di vista, la missione Apollo 13 ebbe senz'altro degli aspetti di successo: essa fu infatti la dimostrazione concreta delle possibilità offerte alla gestione dell'emergenza in un frangente così singolare. La "fortuna" fu che l'incidente avvenne ad inizio missione, ossia con rifornimenti, attrezzature ed alimenti utilizzabili per far fronte a quella che poteva trasformarsi in una vera tragedia. L'esplosione aveva danneggiato gravemente il sistema di alimentazione del modulo di comando: la scialuppa di salvataggio, quindi, divenne il modulo lunare che, però, era stato progettato per ospitare due persone per due giorni. E invece dovette portarne tre per quattro giorni. Fu necessaria una modifica alla traiettoria, con manovre impreviste come la doppia accensione del modulo lunare, ma la strada verso casa fu presa.

Lovell alle prese con il modulo lunare
Lovell alle prese con il modulo lunare

Nonostante la perdita, l'ossigeno era sufficiente all'equipaggio per i quattro giorni che avrebbero trascorso in attesa di rientrare. Possiamo solo immaginare quanto tesi, nervosi e preoccupati fossero i tre uomini. C'erano inoltre due problemi: la necessità di razionare l'acqua (risolvibile, seppur con sacrificio) e la preoccupazione che l'anidride carbonica nel modulo lunare raggiungesse livelli troppo alti. Come avevamo già detto, infatti, il modulo era stato pensato per una performance più breve e così i suoi filtri del biossido di carbonio: fu necessario adattare quelli del modulo di comando, attraverso i materiali presenti sul veicolo spaziale (come cartoni e sacchetti di plastica).

Ammaraggio e fine dell'avventura

Il 17 aprile, finalmente, l'ammaraggio nelle acque dell'Oceano Pacifico, nei pressi di Samoa: l'ultima fase, quella del rientro in atmosfera, venne effettuata al bordo del modulo di comando che aveva il sistema di alimentazione danneggiato ma anche batterie di riserva con una durata prevista di 10 ore. Lo splashdown non riservò sorprese. Gli uomini vennero recuperati: disidratati, sicuramente stressati, con una perdita di peso totale di circa 15 chili, ossia il doppio di quanto accaduto per qualunque altro equipaggio. Ma vivi.

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