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Ebola, contagiati due americani. E la Liberia chiude i confini

Precipita la situazione nei Paesi dell’Africa occidentale colpiti dall’epidemia e si teme un’espansione anche verso altri territori.
A cura di Nadia Vitali
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A sinistra, il dottor Kent Brantly, uno dei due americani risultati positivi al virus ebola
A sinistra, il dottor Kent Brantly, uno dei due americani risultati positivi al virus ebola

Oltre un mese fa, l'organizzazione internazionale Medici Senza Frontiere annunciava che l'epidemia di ebola era ormai fuori controllo, con un numero di contagiati e morti senza precedenti e con la più ampia diffusione territoriale da quando il virus è conosciuto. La situazione non sembrava destinata a risolversi rapidamente, vista l'impossibilità di fatto di intervenire contro l'ebola e i gravissimi deficit nella sanità e nelle strutture dei Paesi colpiti, tant'è che il bilancio dei decessi nel frattempo è salito ad oltre 670, con più di 1.200 contagiati. Lo stato più colpito al momento è la Guinea, con 427 casi e 319 morti, seguono la Liberia e la Sierra Leone. Le cure per gli ammalati, ormai, non sono più la sola risposta, comunque necessaria, per arginare la piaga che inizia a far tremare anche le altre aree dell'Africa le quali fino ad ora non avevano avuto nulla da temere: si è reso quindi ormai necessario un intervento che limiti il più possibile lo scambio di merci, esseri umani e, quindi, del terribile male.

La prima vittima al di fuori del "triangolo maledetto"

Il 20 luglio, un cittadino liberiano di quarant'anni è atterrato a Lagos provenendo da Lomé, in Togo: Patrick Sawyer, questo il suo nome, funzionario del ministero delle finanze liberiano, durante il viaggio aveva presentato sintomi sospetti. Appena giunto in Nigeria, quindi, ne è stato disposto il ricovero e l'isolamento. Il 25 luglio è deceduto: un campione prelevato qualche giorno prima dal suo organismo sofferente ha consentito di accertare la presenza dell'ebola virus; ora si attende anche la conferma del Centre at the Institut Pasteur di Dakar, in Senegal. Qualora tale conferma arrivasse, sarebbe una prova dell'espansione drammatica dell'epidemia. Prevedibilmente, le autorità nigeriane stanno lavorando, in accordo con l'Organizzazione Mondiale della Sanità, per assicurare che questo incidente non porti a conseguenze ben più gravi e su ampia scala.

L'ospedale privato in cui il paziente è stato ricoverato è stato evacuato e la fonte primaria di infezione eliminata; il processo di decontaminazione è iniziato praticamente subito, secondo le dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa dal commissario per la salute pubblica. Il personale sanitario che è stato a stretto contatto con la vittima è stato isolato e sarà monitorato per i prossimi giorni, mentre l'ospedale resterà chiuso. Le autorità stanno tentando anche di monitorare le persone con cui Sawyer è stato in contatto in aeroporto, nonché i passeggeri del volo su cui ha volato: come è facile comprendere si tratta di un'impresa piuttosto complessa. E la preoccupazione sale, espandendosi anche al di fuori dei confini di quei soli tre Paesi che, fino ad ora, avevano vissuto l'incubo dell'ebola.

La Liberia chiude i confini

E mentre giunge l'inquietante notizia che l'epidemia avrebbe raggiunto anche la capitale della Sierra Leone – a Freetown la prima vittima pochi giorni fa, una giovane donna residente in una zona periferica e densamente popolata – dalla Liberia arriva l'annuncio della presidente Ellen Johnson Sirleaf della chiusura delle frontiere dello Stato africano. Le autorità hanno inoltre disposto la quarantena per i villaggi più colpiti ed applicheranno nei prossimi giorni misure restrittive riguardanti manifestazioni ma anche luoghi pubblici affollati come bar e ristoranti. Resteranno aperti soltanto i confini con Guinea e Sierra Leone.

Purtroppo, nonostante la necessità di misure forti come queste, l'epidemia è ben lungi dall'essere controllabile: le raccomandazioni dello staff sanitario non vengono prese nella dovuta considerazione da tutti e nel medesimo modo. Può accadere così che, di fronte alla paura dell'ebola virus, sorga una sorta di diffidenza nei confronti di ospedali e medici e si tenti di nascondere la malattia, con conseguenze che è facile immaginare; soprattutto se si considerano le pratiche tradizionali dei lavaggi sui corpi dei defunti che costituiscono una strada privilegiata per la trasmissione del contagio, attraverso fluidi corporei infetti. Può anche accadere che si tenti la strada della medicina tradizionale, in alcuni casi, rendendo ancora una volta la situazione più ingestibile. Oltretutto il fatto che il ceppo del virus più diffuso sia quello denominato zaire costituisce una preoccupazione nella preoccupazione, dal momento che è quello che presenta il tasso di mortalità più alto che sfiora il 90%.

I primi due cittadini non africani contagiati

Come è noto, non esiste una cura per la malattia da ebola virus: tuttavia un intervento immediato sui sintomi può aiutare a riportare i valori del paziente su parametri normali, ad alleviarne le sofferenze e a contrastare il decorso fatale. Attualmente tali misure sono in atto anche per i primi due cittadini non africani colpiti dal virus. Si tratta di due membri del personale sanitario di nazionalità statunitense: il dottor Kent Brantly, di 33 anni, dirigente nel centro di gestione per l’ebola dell’ospedale Elwa di Monrovia, attualmente ricoverato nel reparto di terapia intensiva dello stesso centro, e un’igienista, Nancy Writebol, addetta alla decontaminazione per coloro i quali transitano nel reparto della medesima struttura. Le condizioni di entrambi appaiono piuttosto gravi, secondo quanto comunicato dall'organizzazione Samaritan's Purse di cui fanno parte.

Purtroppo il personale sanitario risulta particolarmente esposto al contagio: dall'inizio dell'epidemia, i tre Paesi coinvolti hanno contato decine di vittime proprio tra gli operatori del settore. E al momento la parabola del virus non sembra accennare a voler discendere.

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