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Dislessia, imputato un gene

Un’intera famiglia che fatica a ricordare le parole. La dislessia si tramanda di madre in figlio tramite un gene mutato. Nuovi studi aprono una finestra sulla biologia della conoscenza linguistica.
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A cura di Julia Rizzo
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Dislessia, imputato un gene

Dieci anni fa, lo psichiatra David Skuse ha incontrato un bambino di 5 anni molto intelligente ma che aveva serie difficoltà a seguire le conversazioni con altri bambini a scuola. Egli lottava ogni giorno per ricordare i nomi dei compagni di scuola e spesso non riusciva a trovare le parole per esprimere anche i concetti più semplici. Skuse è un esperto di sviluppo del linguaggio presso l'Istituto Child Health dell'University College di Londra, ma non si era mai trovato di fronte a un caso così estremo. Lo scienziato non si è lasciato sfuggire che la madre, bilingue, aveva anch’essa difficoltà nel ricordare parole nella sua madre lingua, non riuscendo infatti a raccontare cosa aveva appena visto in televisione. Skuse decide di approfondire la questione e avvia una serie di indagini sull’albero genealogico della famiglia del bambino.

Il linguaggio ha radici profonde. Il team di Skuse ha testato otto membri della famiglia su una serie di prove linguistiche e mnemoniche per comprendere meglio i loro deficit. È emerso che circa la metà dei membri di questa famiglia, di cui la maggior parte donne, condivide problemi simili di espressione verbale. Osservando poi i cervelli allo scanner di risonanza magnetica, hanno notato leggere differenze – rispetto ai soggetti di controllo – nella quantità di materia grigia nelle regioni del cervello che sono state collegate alla capacità di elaborare il significato di testi. La diagnosi potrebbe sembrare quella della demenza semantica, una patologia caratterizzata da progressiva alterazione del linguaggio. Ma a differenza di questa, «i problemi linguistici di questi soggetti non peggiorano con l'età», ha detto Josie Briscoe, una psicologa cognitiva all'Università di Bristol, Regno Unito, e co-autore dello studio. Il quoziente intellettivo e le proprietà lessicali della famiglia presa in esame erano pari o al di sopra della media, ma paragonati ad altre persone di uguale sesso ed età, non riuscivano a ricordare elenchi di parole o storie che avevano appena ascoltato. Gli scienziati deducono che questo deficit sembra essere ereditato in almeno quattro generazioni.

L’associazione automatica delle parole

Dislessia, imputato un gene

Gli scienziati escludono che questo deficit sia causato da problemi relativi alla capacità di memorizzare o di riconoscere le cose. Infatti, nei test dove i famigliari erano chiamati a riconoscere e identificare gli oggetti raffigurati in disegni e foto, non mostravano difficoltà. Gli unici errori in questo test riguardavano parole molto simili concettualmente come “alligatore” e “coccodrillo”, oppure “dente” e “dentifricio”. Inoltre, faticavano a ritrovare in un elenco di parole diverse due concetti simili come “rivivere” e “resuscitare”. Per queste persone è come stare costantemente con il termine “sulla punta della lingua”, lottando ogni giorno nell’associare correttamente le parole con concetti e significati. L’associazione automatica è quella facoltà che ci permette di associare simultaneamente nel nostro cervello la parola “mela” al frutto che consociamo. Si pensa che il cervello elabori il linguaggio attraverso tre sistemi neuronali che interagiscono tra loro: uno elabora le interazioni non linguistiche tra il corpo e l’ambiente (colori, forme o stati emotivi); un secondo gruppo elabora le combinazioni fonemiche e sintattiche di parole e frasi; un terzo gruppo di sistemi neuronali associa eventi o oggetti alle parole. La zona cerebrale maggiormente coinvolta in questi processi si chiama area del Broca-Wernicke.

La caccia ai geni responsabili

Briscoe, Skuse e i loro colleghi hanno iniziato la caccia ai geni alla base di questo “problema familiare”, confrontando più di una dozzina di membri della famiglia attraverso quattro generazioni. La teoria è che il deficit viene ereditato in modo dominante (ovvero basta un singolo genitore portatore del deficit a causarne l’insorgenza anche nei figli), lasciando intendere che potrebbe essere causato da una singola mutazione di questo gene. «C'è la possibilità che sia coinvolto un singolo gene, che ancora non conosciamo. Una volta trovato tale gene e compreso il suo funzionamento e malfunzionamento, allora avremo  un modo tutto nuovo per comprendere la biologia di un deficit cognitivo così interessante», dice Simon Fisher, genetista presso il Wellcome Trust Centre for Human Genetics (Oxford). Identificare le basi genetiche della caratteristica famigliare unica che porta ad avere difficoltà nell’associazione automatica, potrebbe contribuire a spiegare più a fondo come il nostro cervello collega le parole a diversi oggetti, concetti e idee.

La storia di FOXP2, il gene del linguaggio

scimpanzé

L’evoluzione della scoprta di un singolo gene legato al linguaggio è iniziata nel 2001 e si basa su una famiglia inglese, studiata dagli scienziati del Wellcome Trust Centre for Human Genetics, della quale tre generazioni presentavano gravi difetti nel linguaggio. In queste persone è stata identificata una mutazione a livello del cosiddetto “gene del linguaggio”, denominato FOXP2. «Questo resta l'unico esempio dove un singolo gene mutato è sufficiente a far deragliare le abilità vocali e del linguaggio, non intaccando altre facoltà cognitive», ha dichiarato Fisher. Nel 2002, l’antropologo del Max Planck Institut (Germania) Svante Pääbo, ha fornito la prima evidenza che il gene FOXP2 ha subìto una "evoluzione accelerata" nella specie umana differenziandosi dalla versione presente negli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi. Le mutazioni nel gene FOXP2 potrebbero contribuire a spiegare perché gli esseri umani sono in grado di parlare, mente gli scimpanzé no. L’identificazione di un FOXP2 mutante nelle famiglie multigenerazionali che presentano disturbi del linguaggio, ha innescato una grande quantità di speculazioni sul fatto che le differenze tra la versione umana di FOXP2 e quella degli scimpanzé potrebbe avere qualche relazione con lo sviluppo del linguaggio e la capacità di articolare un discorso nella nostra specie. Nel 2009, Daniel H. Geschwind, professore di neurologia e Psichiatria all’Università della California (Los Angeles), evidenzia che molti dei geni regolati da FOXP2 sono coinvolti nello sviluppo dei neuroni e nella formazione del cranio e della faccia, in altre parole delle componenti fisiche e dei circuiti cerebrali necessari per la lingua parlata. Diventa sempre più chiaro come il linguaggio non si sia evoluto da zero, ma da una risintonizzazione dei percorsi genetici presenti nei nostri antenati.

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Julia Rizzo è laureata in biologia ed è appassionata di comunicazione scientifica, soprattutto in ambito naturalistico ma anche biomedico. Attualmente vive a Bolzano.
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