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Dipendenze e abuso: una questione di “inclinazione”?

Le sostanze stupefacenti non agiscono in maniera uniforme su tutti gli individui: la ragione di tale differenza nello sviluppo delle dipendenze potrebbe risiedere, secondo alcuni ricercatori, in una specifica area del cervello.
A cura di Nadia Vitali
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dipendenze e abuso una questione di inclinazione

Dinanzi a tutte quelle sostanze che generano dipendenza fisica, differenti individui tendono spesso a non manifestare comportamenti perfettamente analoghi: le stesse droghe, la cui assunzione può facilmente (e in molti casi assai velocemente) spingere l'organismo verso una ricerca sempre più compulsiva, cieca, ai limiti dell'inconsapevolezza, non vengono recepite dai singoli secondo i medesimi schemi. I comportamenti che espongono rapidamente all'abuso, con tutte le drammatiche conseguenze che ne derivano, si presentano in modalità, intensità e con una facilità che tende a variare da persona a persona: in altre parole, secondo l'opinione di molti, per alcuni soggetti il rischio di diventare “dipendenti” sarebbe più alto rispetto ad altri.

Rispetto a questa logica affermazione ci si è spesso interrogati sulla possibilità che tali differenze di approccio derivassero da fattori sociali, ambientali, economici e culturali, o se affondassero le proprie radici esclusivamente nella biologia e, nello specifico, celassero la propria ragion d'essere in specifiche aree del cervello: trovare una risposta univoca in questo senso sarebbe, oltre che probabilmente ancora di fatto impossibile, anche piuttosto limitante, dal momento che un fenomeno complesso in ogni suo aspetto, quale è la dipendenza e l'abuso dalle sostanze stupefacenti, non può certamente essere osservato esclusivamente con la lente della fisiologia o, di contro, della statistica e della sociologia. Troppo numerosi, e troppo spesso inafferrabili, i fattori che concorrono a creare situazioni allarmanti presso ogni fascia sociale, in quasi tutti i paesi del globo, per entrambi i generi.

Contrariamente a quanto è accaduto tra gli anni '80 e '90, quando la droga era considerata un'emergenza nazionale per ogni singolo Stato e veniva affrontata con relativo dispiegamento di forze, gradualmente nei Paesi occidentali il riflettore è andato sempre più indebolendo la propria luce su un problema che, di fatto, è rimasto irrisolto: per tale ragione, quindi, la ricerca sul fenomeno “droga”, sia essa finalizzata a conoscere i dati relativi al consumo o gli effetti devastanti che le sostanze stupefacenti hanno sugli organismi, sono ancora fortemente necessarie. L'ultimo studio sul tema proviene dagli Stati Uniti e, secondo il parere degli autori, potrebbe aprire le porte a nuovi approcci terapeutici per la cura delle dipendenze; il lavoro, i cui risultati sono stati pubblicati dalla rivista Nature, avrebbe infatti evidenziato come le differenze in alcuni circuiti cerebrali consentirebbero ad alcuni individui di rispondere con maggiore resistenza a quelle sostanze che, in altri soggetti, creano dipendenze gravi al punto da necessitare di più di un aiuto esterno per trovare una via d'uscita (che talvolta non è neanche quella definitiva).

L'esperimento

cocaina

I ricercatori del National Institutes of Health di Bethesda, nel Maryland, hanno così cercato di concentrarsi sul meccanismo cellulare che potrebbe essere sotteso a questi diversi comportamenti; hanno istruito alcuni topolini, insegnando loro a compiere determinate operazioni per riuscire, poi infine, ad assumere una sostanza come la cocaina. Scopo dell'esperimento era riuscire ad osservare quanta fatica le cavie erano disposte ad accettare, pur di ottenere l'ambita ricompensa. Per prima cosa gli studiosi hanno effettivamente rilevato come in alcuni topi scattasse quasi immediata la ricerca compulsiva della droga, mentre in altri tale atteggiamento si presentava in misura più lieve o, addirittura, poteva non manifestarsi affatto. Successivamente è stato verificato come negli animali più “dipendenti” i neuroni del nucleus accumbens, sistema di neuroni coinvolto nei meccanismi delle dipendenze ma anche nell'elaborazione di emozioni forti quali piacere e paura, esprimessero sinapsi con il recettore per la dopamina D1; al contrario, i topi che avevano mostrato una evidente resistenza allo stimolo della cocaina, si caratterizzavano per una maggiore efficienza e sviluppo delle sinapsi con i recettori D2. Tale differenza deriva dall'attivazione di differenti geni, fatto che ha portato i ricercatori a dedurre logicamente che, nella pratica, la somministrazione di farmaci e sostanze in grado di interferire con l'espressione di tali geni, potrebbe costituire un nuovo approccio terapeutico per la cura delle dipendenze, cercando di rafforzare le sinapsi collegate al recettore D2.

Probabilmente si tratta solo di una goccia nel mare dall'emergenza droga: un problema che solo in parte va affrontato con gli strumenti che la scienza mette a disposizione ma la cui risoluzione competerebbe, soprattutto, ai singoli Governi di ciascun Paese, sia esso “produttore” o anche semplice “importatore”. Ma, allo stesso tempo, un significativo passo avanti verso la conoscenza del funzionamento di quell'organo misterioso ed affascinante che è il nostro cervello, verso il quale la ricerca è sempre più orientata con la speranza di riuscire a fornire una risposta ad alcuni tra i più grandi interrogativi dell'umanità.

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