Come usare il DNA per inviare un messaggio nella bottiglia
A, T, C e G sono le lettere del nostro codice genetico. La loro combinazione dà vita ai nucleotidi, che a loro volta compongono il nostro DNA. Sembrerebbe che siano davvero poche, le lettere che creano la vita; eppure, sono capaci di combinarsi in modo da creare centinaia di milioni di nucleotidi per ciascun filamento di DNA. A qualcuno è venuta allora l’idea di usare questa straordinaria capacità di memorizzazione dell’informazione – tutto il manuale d’istruzioni di un essere umano racchiuso in un paio di nanometri – per qualcos’altro. Nel numero della scorsa settimana di Science, George Church del dipartimento di genetica di Harvard, Yuan Gao dell’istituto di bioingegneria Wyss di Boston e Sri Kosuri, del dipartimento di ingegneria biomedica della John Hopkins University hanno avanzato una proposta davvero curiosa: scrivere un libro su DNA.
Un libro racchiuso in 2 nanometri
Church ha dimostrato come si possa fare utilizzando come esempio il suo libro di prossima pubblicazione dal titolo Regenesis: How Synthetic Biology will Reinvent Nature and Ourselves (“Rigenesi: come la biologia sintetica reinventerà la natura e noi stessi”). Un testo di 53.426 parole, oltre a 11 immagini jpeg. Testo e immagini possono essere convertiti in formato html, come sappiamo, trasformandosi in bit, che non sono altro che espressione del codice binario 0-1. Invece di usare due numeri, abbiamo quattro basi azotate: A, C, T e G. Utilizzando un codice “perl” appositamente scritto dagli scienziati, è possibile convertire i bit in DNA. A conti fatti, ci troviamo a poter immagazzinare in appena due filamenti di DNA un totale di 5,27 megabytes, di gran lunga superiore al record finora realizzato dal Craig Venter Institute che è di 7,920 bit, impiegando un codice proprietario (a differenza di questo, che è stato invece reso “open” per poter replicare i risultati).
Sul suo blog su Scientific American, la biologa Christina Agapakis, esperta di bioingegneria, ha suggerito che questo sistema possa essere anche impiegato per inviare messaggi nello spazio. L’idea deriva da un esperimento simile realizzato da Carl Sagan e Frank Drake, i due grandi pionieri della ricerca di civiltà extraterrestri, che nel 1974 inviarono tramite il radiotelescopio di Arecibo un messaggio binario verso le stelle. Si trattava di un'immagine rettangolare di dimensioni 23×73 (due numeri primi) che illustrava alcune informazioni fondamentali sulla nostra posizione nella galassia, la composizione del nostro sistema solare, le fattezze di un essere umano, il design del telescopio da cui è stato inviato il messaggio e, ovviamente, una molecola di DNA.
Un messaggio nella bottiglia di DNA
Immaginiamo che la chimica organica sia più o meno la stessa nel cosmo. Tutte le specie animali, d’altronde, possiedono un codice genetico racchiuso all’interno del DNA, nascosto nel nucleo di ogni cellula. Forme di vita aliene si saranno evolute allo stesso modo, partendo dagli amminoacidi, che abbiamo scoperto in asteroidi provenienti dallo spazio? È estremamente probabile. Dunque, il DNA potrebbe essere più di un simbolo da mostrare ai nostri eventuali cugini extraterrestri per far vedere loro come siamo stati bravi a scoprirlo. Nel 1988 la biologa molecolare Dana Boyd dell’Harvard Medical School (che lavora nello stesso laboratorio di George Church, principale autore del nuovo esperimento), insieme al miniaturista Joe Davis, riuscirono a riprodurre un’immagine di un’antica runa germanica che rappresenta la vita e la terra utilizzando 18 paia di basi azotate inserite poi all’interno di un batterio E. Coli.
Negli anni ’70, ricorda Christina Agapakis, alcuni scienziati ipotizzarono che i virus presenti sul nostro pianeta fossero stati inviati come messaggi da civiltà extraterrestri. Sappiamo che il DNA, rispetto ad altri composti chimici, e nonostante la sua naturale tendenza al mutamento e all’evoluzione attraverso la mitosi cellulare, è estremamente stabile e inerte, tant’è vero che è possibile estrarre filamenti integri di DNA da resti organici di decine di migliaia di anni fa. Nulla ci impedirebbe, allora, di inviare spore contenenti DNA sintetico nello spazio. All’interno di esso, potremmo immagazzinare un’enorme mole di informazioni che civiltà aliene potrebbero poi decodificare. E queste civiltà potrebbero già averci provato, magari proprio con noi. Sono stati fatti diversi tentativi di estrarre una qualche informazione sensata dalla sequenza genetica del virus φX174, ma senza successo.
In effetti, l’idea era un tantino fantascientifica. Tuttavia, diverso astrobiologi ed esperti di ricerca di vita intelligente nell’universo sostengono che civiltà più avanzate delle nostre possano rivelarsi impossibili da scoprire con i nostri attuali strumenti, perché tendenti a una sempre maggiore miniaturizzazione. Potrebbero utilizzare sonde di dimensioni nanometriche per visitare altri mondi, come la Terra, e noi non riusciremmo poi a individuarle. Certo una spora contenente un messaggio racchiuso all’interno di un DNA sintetico sarebbe un autentico messaggio nella bottiglia, inviato alla deriva negli abissi del cosmo, senza alcuna certezza che qualcuno riesca mai a scoprirlo e decifrarlo. Ma dato che con l’attuale sistema della radioastronomia non abbiamo ancora cavato un ragno dal buco, un tentativo – se poco costoso – si potrebbe anche fare.