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Buoni o cattivi si nasce? C'era chi diceva che bastava guardarsi in faccia

Medico ed antropologo, vissuto tra il 1835 e il 1909, Cesare Lombroso diede un’impronta scientifica agli studi sulla criminalità: grande merito che, tuttavia, non deve far dimenticare i forti limiti delle sue teorie, soprattutto in questi tempi in cui il razzismo e l’intolleranza sembrano le strade più facili da percorrere per molti.
A cura di Nadia Vitali
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Cesare Lombroso

Più di un secolo è trascorso dalla morte di Cesare Lombroso, da molti considerato il padre dell'antropologia criminale e, nonostante il pensiero e le scienze umane siano progredite negli ultimi cento anni ad una velocità da far girare la testa, ancora c'è chi si tiene ancorato ai principi che il celebre medico, a cui è intitolato il museo di Torino da lui fondato nel 1876, elaborò in pieno periodo positivista: principi che, loro malgrado, avrebbero gettato le basi per derive razziste e totalmente prive di qualunque rapporto con la scienza, ma che ancora affascinano, purtroppo, tante persone.

Ancora dunque, nel 2011, ci si trova ad interrogarsi sulla possibilità che determinate caratteristiche fisiche, dunque ereditarie, possano essere fattori di influenza sulla mente dell'uomo e, dunque, essere determinanti per poter distinguere un criminale? Per fortuna no, anche se, come riportato da Lastampa, nel mondo anglosassone, ad esempio, Lombroso è ancora considerato uno studioso degno di massima considerazione: dunque, sebbene razionalmente si neghino le sue teorie, sono ancora in tanti a subirne un'influenza quasi involontaria.

Lombroso, oltre ad essere un positivista, in verità, si ritrovò anche a vivere nella singolare realtà dell'Italia post unitaria in cui il fenomeno del brigantaggio metteva chiaramente in luce tanto il lealismo nei confronti della preesistente monarchia borbonica, quanto l'insoddisfazione per il nuovo assetto politico e sociale dell'Italia unita sotto la bandiera sabauda, in cui il Sud si trovò drammaticamente, ed improvvisamente, penalizzato. La teoria atavica lombrosiana permetteva, quindi, alle autorità di non sentirsi responsabili del problema sociale della criminalità che, viceversa, era palesemente specchio della povertà in cui versava gran parte del paese e dell'emarginazione e della subalternità a cui erano state relegate intere aree geografiche e fasce sociali.

Ciò che creava i criminali, infatti, era, secondo il medico, un fattore ereditario che si manifestava con grandi mandibole, canini forti e ben sviluppati, incisivi mediani molto più in evidenza di quelli laterali, denti in soprannumero, zigomi sporgenti, arcata sopraccigliare sporgente e prognatismo (come nell'uomo di Neanderthal), nonché piedi prensili e naso schiacciato: caratteri fisici che tendevano a mettere in luce la somiglianza del criminale con la scimmia, ovvero con un uomo regredito sulla ipotetica linea dell'evoluzione. Per quanto oggi, fortunatamente, si rabbrividisca solo a leggere di queste teorie, errore sarebbe sottovalutare il potenziale eversivo di tali idee per il tempo: il criminale si ritrovava, infatti, così ad essere non più solo ed esclusivamente un colpevole contro il quale la comunità aveva il dovere etico di puntare il dito, ma anche e soprattutto un malato, ridefinendo così i confini tra la punizione vera e propria e, addirittura, l'ipotesi di una educazione quando non, addirittura, di una terapia (non a caso, Lombroso non lasciò indifferente il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, che ne ebbe grande ammirazione).

Se, dunque, grande merito stava nell’aver riconosciuto al criminale lo statuto “patologico”, di contro, il rimandarne le caratteristiche negative a tratti somatici costituiva ancora un grosso limite alle teorie lombrosiane; il tempo e scoperte epocali come il dna avrebbero smentito del tutto le sue idee, lasciandone tuttavia importanti tracce nel linguaggio quotidiano e nell’approccio con il nero mondo del crimine … Per quanto la cronaca offra ogni giorno spunti di smentita per la teoria atavica.

La personalità criminale, secondo gli studi di Lombroso, sarebbe stata da collegarsi alla malattia dell’epilessia, patologia caratterizzata spesso dalla perdita temporanea della coscienza: l’uomo in preda ad un oscuramento totale dei sensi si rende reo di colpe che deriverebbero da un malfunzionamento del suo cervello e quindi da un danno congenito. La malattia che per i nostri più celebri antenati della Grecia antica era stata chiamata morbo sacro, l’attacco di un demone che rendeva il malato un ossesso, si ritrovò degradata allo stato di causa motrice di azioni scellerate, come raptus di follia omicida su cui l'antropologo compì le sue ricerche: il che diede la nascita ad una serie di pregiudizi che, anche in questo caso, a tutt’oggi hanno ancora una certa presa su una parte della collettività, quando non addirittura su una parte del mondo medico.

Come congedare dunque Cesare Lombroso nel ventunesimo secolo? Semplicemente ammettendone i limiti, senza tralasciarne le idee innovative: cercando di guardare al fascino dei suoi studi, a Torino sono ancora conservate le teste su cui il medico cercava fondamenti per le sue teorie, senza lasciarsi travolgere da una deriva di irrazionalità, dalla quale bestie nere come il razzismo e la discriminazione, possono inevitabilmente venir fuori.

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